Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Due concetti di stakeholderism (di Francesco Denozza)


Un concetto di stakeholderism “istituzionalista”, o “sistemico”, in cui agli amministratori è affidato il compito di mediare tra gli interessi eventualmente confliggenti di tutti gli stakeholder, è contrapposto ad un concetto di stakeholderism qualificato come “democratico”, in cui gli amministratori sono obbligati a comunicare, e dialogare preventivamente e continuativamente, con tutti gli stakeholder. Il lavoro sostiene che il secondo sfugge alle principali obiezioni che sono usualmente mosse nei confronti del primo, e che il riferimento alla comunicazione democratica può orientare lo stakeholderism democratico in una prospettiva non puramente aziendale ma decisamente sociale.

Sono infine esaminati alcuni argomenti di giustizia, e pratici, rilevanti per la scelta in favore di uno stakeholderism democratico.

Parole chiave: Stakeholderism; istituzionalismo; comunicazione democratica

Two concepts of stakeholderism

A concept of “institutionalist”, or “systemic”, stakeholderism, in which corporate directors and managers are entrusted with the task of mediating between the possibly conflicting interests of all the stakeholders, is contrasted with a concept of “democratic” stakeholderism, in which corporate directors and managers are obliged to communicate in advance and to dialogue continuously with all stakeholders. The paper argues that the latter escapes the main objections usually raised against the former, and that the reference to democratic communication can steer democratic stakeholderism away from a vision focused only on the interest of the single corporation, towards a decidedly more social perspective.

Eventually, some justice and practical considerations relevant for the choice in favor of a democratic stakeholderism are examined.

Keywords: Stakeholderism; institutionalism; democratic communication

Sommario/Summary:

1. Introduzione. - 2. Protezione degli stakeholder mediante norme imperative. - 3. La modifica della disciplina relativa alla definizione dello scopo della società. - 4. Lo stakeholderism sistemico o istituzionalista. - 5. Problemi e limiti dello stakeholderism sistemico/istituzionalista. - 6. Stakeholderism come comunicazione democratica. - 7. Lo stakeholderism democratico: problemi di legittimazione e praticabilità. - NOTE


1. Introduzione.

Il termine inglese utilizzato nel titolo del presente lavoro evoca la c.d. stakeholder theory che a sua volta si riferisce non a una singola teoria, ma a quello che è stato chiamato «an amalgamation of eclectic narratives» [1]. Un insieme di impostazioni che non riesce a darsi una precisa caratterizzazione neppure attraverso il comune riferimento all’importanza del ruolo degli stakeholder, posto che la stessa nozione di stakeholder è controversa e, secondo alcuni, merita di essere qualificata addirittura come un essentially contested concept [2]. Il compito di mettere ordine tra queste varie teorie è complesso e non verrà affrontato in questa sede [3]. In questo lavoro cercherò piuttosto di delineare due concetti alternativi di “stakeholderism”, inteso genericamente come nozione descrittiva dell’orientamento secondo cui le grandi società per azioni dovrebbero gestire le loro imprese assumendo come obiettivo non solo la massimizzazione del valore per gli azionisti, ma anche la protezione degli interessi degli altri stakeholder. Questo orientamento sembra aver raggiunto in tempi recenti una rilevante diffusione visto che importanti prese di posizione favorevoli ad una maggior considerazione (da parte dei gestori delle società per azioni) degli interessi di tutti gli stakeholder sono state negli ultimi anni assunte con relativa frequenza e da parte di diversi attori sociali e politici [4]. Non mancano, ovviamente, ostinati e veementi ripropositori del vecchio dogma della massimizzazione dello shareholder value [5]. Non è però degli argomenti avanzati da questi ultimi, e del contrasto tra i due orientamenti, che intendo occuparmi nel presente lavoro. Qui cercherò invece prima di tutto di dare brevemente conto delle possibili implicazioni generali di una eventuale svolta in direzione di una maggiore protezione degli interessi degli stakeholder non finanziari (d’ora in poi, per semplicità, mi riferirò ad essi come agli stakeholder senza ulteriori specificazioni, il che ovviamente non implica alcuna intenzione di mettere in discussione il dato di fatto per cui anche soci, creditori, ecc. appartengono alla categoria degli stakeholder in senso letterale intesa). Cercherò poi di illustrare, in particolare, due diverse visioni di stakeholderism che possono essere contrapposte essenzialmente sulla base del [...]


2. Protezione degli stakeholder mediante norme imperative.

Una prima evidente alternativa a disposizione di chi ritiene che il livello di protezione degli stakeholder dovrebbe essere aumentato, è quella di individuare i loro specifici interessi bisognosi, e meritevoli, di maggior protezione, e poi accrescerne la tutela mediante emanazione di apposite norme imperative. Questa prospettiva ripropone la tradizionale divisione di ruoli che era già presente nelle tesi di Friedman [10]. Gli amministratori delle singole società pensino a massimizzare i profitti, senza preoccuparsi di auto-imporsi particolari limiti. A fissare i livelli di protezione che bisogna assicurare agli stakeholder, e di conseguenza i limiti, uguali per tutti, che nessuna impresa può oltrepassare, pensi il legislatore [11] (o, là dove ne hanno la forza, gli stakeholder stessi, nella loro attività di contrattazione con le imprese). L’opportunità che il legislatore tuteli determinati interessi con norme imperative di applicazione generale, non può essere messa ovviamente in discussione. Il problema perciò non è se le norme imperative siano necessarie (certamente lo sono). Il problema è se siano sufficienti. Le ragioni che sconsigliano di puntare esclusivamente su interventi del legislatore mirati a tutelare questo o quell’interesse che appaia di volta in volta meritevole di protezione, sono molteplici. Una prima, fondamentale, ragione attiene al ben noto fenomeno dell’in­completezza delle leggi (e dei contratti) [12]. La naturale e insuperabile incompletezza delle norme fa sì che nella realtà regolata esista sempre la possibilità che si verifichino situazioni non previste dal legislatore, come tali oggetto di dubbi e incertezze in ordine al modo in cui devono essere regolate. Esiste sempre, ed è sostanzialmente ineliminabile, quella, più o meno estesa, zona d’ombra (di cui parlano Hart e altri teorici del­l’interpretazione [13]) in cui è difficile decidere se debba essere applicata l’una o l’altra regola. Ovviamente le zone d’ombra, e le probabilità di incontrare “hard cases”, non sono distribuite in maniera uniforme e non riguardano tutte le situazioni allo stesso modo. La loro presenza dipende, al contrario, dalle caratteristiche della norma (la maggiore o minore attenzione con cui ne è stata curata la concezione e la [...]


3. La modifica della disciplina relativa alla definizione dello scopo della società.

Se si riconoscono i limiti di un’azione basata solo sull’emanazione di specifiche norme imperative e ci si pone invece nella prospettiva di modificare anche i criteri di valutazione che le società adottano nel decidere i propri orientamenti nei confronti degli stakeholder, una via di possibile intervento è rappresentata dalla introduzione di modifiche legislative alla disciplina relativa alla definizione dello scopo della società. Ciò potrebbe avvenire in almeno due modi diversi. Una prima strada potrebbe essere quella di introdurre una disciplina che in via generale autorizzi le società a definire autonomamente nei loro statuti lo scopo che intendono perseguire [17]. Non c’è dubbio che questo potrebbe essere un modo di favorire una generale razionalizzazione e, in definitiva, una migliore tutela per gli investitori, messi in grado di scegliere senza ambiguità il grado di “socialità” verso cui intendono indirizzare i propri investimenti. Va però osservato che una migliore protezione degli interessi degli stakeholder si realizzerebbe solo se il mercato rivelasse una forte presenza di investitori socialmente orientati, in grado di incentivare le società ad immettere nei loro statuti esplicite clausole volte a tutelare l’uno o l’altro stakeholder. Per chi considera un aumento della protezione degli stakeholder come una impellente necessità, questa prospettiva appare decisamente insoddisfacente, troppi essendo i rischi che gli investitori socialmente orientati non riescano ad immettere nel mercato univoci impulsi [18] e che invece le società riescano comunque a realizzare operazioni di c.d. Greenwashing, in modo da allargare la platea degli investitori potenziali, senza in realtà perdere il controllo delle proprie politiche aziendali ed evitando di allontanare gli investitori meno socialmente orientati. Altra possibilità è quella di introdurre una regola [19] che contenga una vincolante definizione legislativa dello scopo che tutte le società (lucrative) devono perseguire. Una definizione che abbandoni (là dove è presente) il criterio della (esclusiva) massimizzazione del valore per gli azionisti, e adotti riferimenti più protettivi degli interessi degli stakeholder [20]. A questo punto si pone una ulteriore alternativa. Si può immaginare che [...]


4. Lo stakeholderism sistemico o istituzionalista.

Veniamo allora all’ipotesi alternativa e più radicale, che è quella di procedere ad una definizione legislativa dello scopo della società che contempli un qualche livello protezione degli interessi degli stakeholder, e che affidi agli amministratori il compito, e il potere, di definire i modi di concretizzazione di questa vincolante indicazione. Qui credo sia anzitutto opportuno chiarire che l’idea di percorrere questa strada intanto ha un senso in quanto si abbandoni la prospettiva dell’enlight­ened shareholder value e si entri decisamente in una prospettiva di tipo “stakeholderista”. Credo, infatti, che già oggi gli amministratori ben potrebbero legittimamente perseguire politiche di cui sia oggettivamente dimostrabile l’i­doneità a beneficiare sul lungo periodo i soci, anche se nell’immediato possono imporre loro qualche sacrificio. Una modifica legislativa che vincolasse gli amministratori a proteggere gli interessi degli stakeholder solo nelle circostanze in cui questa protezione fosse destinata in un futuro più o meno prossimo a ridondare comunque a vantaggio dei soci (almeno come serie, se non come gruppo) mi sembra, ancora una volta, che non comporterebbe alcun rilevante progresso rispetto alla situazione attuale. Si tratta perciò di percorrere una ben diversa strada, in cui la valutazione circa l’opportunità di realizzare, di volta in volta, l’uno o l’altro bilanciamento tra gli interessi dei soci in conflitto con quelli degli stakeholder, e quelli di questi ultimi, entra a far parte dei meccanismi interni della società [24] e viene rimessa, in definitiva, al prudente apprezzamento degli amministratori. L’am­ministratore, per sfuggire a responsabilità, non dovrà più dimostrare che le sue scelte tutelano in definitiva, sia pure in una prospettiva di lungo periodo, l’in­teresse dei soci. Gli basterà dimostrare che le sue scelte realizzano un ragionevole bilanciamento tra gli interessi dei soci e quelli degli altri stakeholder. In tal modo si entra in una prospettiva decisamente stakeholderista, e, più precisamente, in quella prospettiva che potremmo chiamare di stakeholderism “istituzionalista” o, meglio ancora, “sistemico”, in cui gli amministratori, capi dell’impresa, sono investiti, tra l’altro, anche del compito di [...]


5. Problemi e limiti dello stakeholderism sistemico/istituzionalista.

Le incognite che pesano su questa prospettiva sono molteplici. Va anzitutto rilevato che questa impostazione sembra rievocare anacronistiche visioni del ruolo degli amministratori, concepiti come un’imparziale tecnostruttura in grado di disinteressatamente mediare i conflitti che sorgono tra i vari interessi in gioco [27]. Anche le più moderne, e più sofisticate, tesi favorevoli ad affidare agli amministratori un ruolo di mediatori [28] finiscono per supporre che essi siano in grado di rivestire un ruolo relativamente disinteressato e largamente indipendente dall’influenza dei soci. L’idea di amministratori immaginati come solitamente meno interessati dei soci ad adottare atteggiamenti opportunistici nei confronti degli stakeholder, visto che i beneficiari diretti dei guadagni immediati che possono essere realizzati con comportamenti opportunistici non sono loro (gli amministratori), ma i soci, appare, in verità, non molto credibile. Gli amministratori, anche quelli – probabilmente pochi – che né sono soci, né sono remunerati in base ai corsi azionari, hanno comunque interesse a che l’impresa cresca in conformità alla loro personale visione di successo, visione che non c’è motivo di pensare che coincida necessariamente con quella che realizza il più giusto equilibrio tra gli interessi di tutti gli stakeholder. Ancora meno credibile appare l’idea che gli amministratori siano relativamente indipendenti dai soci e che possano sistematicamente adottare orientamenti contrastanti con le preferenze della maggioranza dei soci stessi. Esiste quindi prima di tutto un problema di realismo. Non sembra affatto scontato che l’affidamento agli amministratori del ruolo di gerarchi-mediatori possa portare ad una effettiva modifica della situazione attuale e non, piuttosto, ad una situazione in cui gli interessi degli stakeholder saranno tenuti in considerazione, più o meno come adesso, solo quando ciò sia nel complesso gradito ai soci e considerato nel loro potenziale interesse. Del resto, l’espe­rienza maturata durante il periodo in cui ebbero a prevalere concezioni “managerialiste” sicuramente non induce a fare eccessivo affidamento sulle capacità equilibratrici degli amministratori. In ogni caso, ammesso che il progetto abbia un potenziale effettivamente innovativo, resta da vedere se esso sia da [...]


6. Stakeholderism come comunicazione democratica.

L’ impostazione delineata e criticata al paragrafo precedente si pone, come ho già sottolineato, in una prospettiva che possiamo inquadrare come istituzionalista o sistemica, nel senso che il suo obiettivo immediato è quello di valorizzare la funzione gerarchica degli amministratori, spinta sino a trasformarla in un meccanismo in grado di ottenere un migliore coordinamento delle varie parti del sistema (o, se si vuole, delle varie componenti dell’istituzione-organismo che gestisce le grandi imprese) [32]. A questa impostazione istituzionalista può essere contrapposta una diversa impostazione nella quale la protezione degli interessi degli stakeholder non sia affidata ad un criterio di tipo sistemico (loro compatibilità con gli interessi dell’organizzazione), filtrato dall’interpretazione dei dirigenti dell’organizza­zione stessa, ma sia affidato ad un meccanismo sociale di comunicazione democratica. In questa visione la protezione degli interessi degli stakeholder va concepita come un fine in sé, e non come un accorgimento strumentale ad una migliore complessiva gestione dell’organizzazione e dei rapporti in cui essa è inserita. Si tratta cioè di riconoscere il ruolo degli stakeholder nella loro qualità di partecipanti alla comunità politica generale (cittadini) e non in quella di fornitori di risorse materiali o immateriali alle singole imprese interessate. Una delle più immediate implicazioni di questa differente visione è rappresentata da una ulteriore linea di contrapposizione tra i due concetti di stakeholderism. Quella tra uno stakeholderism che potremmo chiamare a vocazione aziendalistica, e uno stakeholderism a vocazione sociale. Se il centro dell’attenzione viene focalizzato sulla funzione mediatrice degli amministratori della specifica istituzione (la specifica società per azioni, in questo caso), è realistico prevedere che tutto il sistema tenderà a ripiegarsi in una prospettiva aziendalistica. Lo stakeholderism aziendalista punta a democratizzare la gestione delle singole imprese, ad allargare sostanzialmente i confini dell’impresa stessa (non solo coloro che hanno fornito il capitale, i manager, i lavoratori, ecc. ma tutte le entità che vengono considerate come componenti dell’Unternehmen an sich) e poi, in definitiva, ad importare nelle decisioni dell’impresa il [...]


7. Lo stakeholderism democratico: problemi di legittimazione e praticabilità.

Vorrei porre, per finire, alcune questioni più generali che necessiteranno in futuro di ulteriori approfondimenti. La prima riguarda l’identificazione dei valori che possono legittimare una scelta in favore dello stakeholderism e in particolare della forma di stakeholderism democratico che ho cercato qui di illustrare e di sostenere [43]. Ovviamente una proposta di intervento politico in senso “stakeholderista”, non ha sicuramente necessità di giustificazione in misura maggiore di quanta ne abbia la proposta in favore della promozione dello shareholder value. La scelta di orientare la disciplina delle società nel senso della promozione dello shareholder value è ovviamente una scelta altrettanto politica di quella che qui si propone. Il punto non avrebbe neppure bisogno di essere chiarito, se non fosse che esiste chi ritiene che solo ai soci possa spettare la legittimazione a decidere se e in che misura orientare la loro impresa in un senso parzialmente diverso dalla massimizzazione del profitto. Così è stato recentemente scritto, in continuità con la tradizione che trovò in Milton Friedman il suo più famoso divulgatore, che «any deviation from profit maximization is borne by the shareholders, who are the residual claimants. Thus, deviating from profit maximization is a form of taxation, which only the shareholders can impose on themselves. Otherwise, it is expropriation» [44]. A parte i forti dubbi che si possono nutrire sul significato, e l’effettiva rilevanza, della qualificazione di residual claimant, e sulla sua attribuzione in esclusiva ai soci [45], l’affermazione che precede appare tanto perentoria quanto destituita di ogni fondamento. Essa suppone che i soci abbiano una sorta di diritto naturale, alienabile solo con il loro consenso, a che le società in cui investono perseguano la massimizzazione del profitto ad ogni costo, e ad a che tutti i proventi che possono derivare da questa attività siano ad essi devoluti. Che le cose non stiano così, e cioè che questo diritto naturale non esista, è evidente a chiunque, solo che si pensi al fatto che infinite limitazioni circondano l’esercizio, da parte di qualsiasi soggetto, anche dei diritti più fondamentali, persino quello di diritti in un certo senso ben più “naturali” di quelli connessi all’investimento in [...]


NOTE