Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Due contributi di giuscommercialisti alla teoria generale del diritto (di Mario Libertini)


L’a. svolge una recensione parallela di due libri di teoria generale del diritto, scritti da affermati docenti di diritto commerciale. I due libri sono molto diversi nella loro struttura, ma, secondo l’a., sono accomunati da alcune idee comuni: la convinzione che il diritto abbia una base antropologica, che ne fa un sistema di regole sociali destinato primariamente a sostenere la coesione sociale, mediante la spontanea osservanza delle regole da parte degli individui; la convinzione che il diritto contemporaneo sia necessariamente complesso e perciò affidato all’attività di un ceto professionale di giuristi; la convinzione che l’attività dei giuristi non sia – e non debba divenire – un insieme di decisioni arbitrarie di controversie, ma debba fornire alle stesse soluzioni discrezionali ma non arbitrarie, sulla base di criteri accettati nel contesto socioculturale in cui il giurista si trova ad operare.

On the contributions of two commercial law scholars to the general theory of law

The author carries out a parallel review of two books on the general theory of law, written by established professors of commercial law. The two books are very different in their structure, but, according to the author, they share some common ideas: the belief that law has an anthropological basis, which makes it a system of social rules intended primarily to support social cohesion, through the spontaneous observance of the rules by individuals; the belief that contemporary law is necessarily complex and therefore entrusted to the activity of a professional class of jurists; the belief that the activity of jurists is not – and should not become – a set of arbitrary decisions, but should provide discretionary, although not arbitrary solutions of controversies, based on criteria accepted in the specific socio-cultural context in which the jurist has to operate.

Keywords: general theory of law – commercial law

Sommario/Summary:

1. Premessa - 2. Differenze e possibili analogie fra i due libri recensiti. - 3. L’ Elogio dell’approssimazione di Giuseppe Terranova. - 4. Condivisione dello scetticismo moderato e possibili sviluppi delle tesi di Terranova. - 5. A che cosa serve il diritto di Vincenzo Di Cataldo. - 6. La pars construens del libro di Di Cataldo. Un’osservazione: necessità di distinguere tra cultura della mediazione ed esigenza di giustizia predittiva. - 7. Condivisione delle idee di fondo del libro di Di Cataldo. - 8. I tratti comuni dei due libri: l’aspirazione verso una dottrina giuridica “alta” e il suo possibile anacronismo. - NOTE


1. Premessa

In una riflessione di qualche anno fa sulla storia del Diritto commerciale, ho tentato una periodizzazione, distinguendo tre stagioni. Notavo infatti come, alle origini, vi sia una lunga, plurisecolare esperienza, in cui il diritto commerciale si è formato e sviluppato come ius proprium di un certo ceto sociale (ius mercatorum), applicato da corti formate da giudici “pratici”, non accompagnato da una riflessione dottrinale volta a inquadrare la pratica applicativa in regulae iuris dotate di una dimensione “teorica” (che era, per secoli, quella del diritto comune romano-canonico). Questa situazione cambia radicalmente nel corso dell’Ottocento. L’inse­gna­mento di Levin Goldschmidt porta a valorizzare culturalmente l’esperienza giuridica che aveva creato una serie di istituti estranei alla tradizione romanistica, ma aventi un ruolo centrale nella vita economica costruitasi a seguito della rivoluzione industriale. A questo punto si forma in tutta Europa (in Italia soprattutto con l’insegnamento di C. Vivante) una generazione di giuscommercialisti accade­mici che ambisce a collocare la propria (e nuova) disciplina nei piani alti del sa­pere giuridico, ravvisando nell’esperienza formativa del diritto commerciale un complesso di metodi e di conoscenze che può svolgere un ruolo propulsivo ai fini dell’ammodernamento dell’intero sistema giuridico. I giuscommercialisti della generazione di Vivante, e di quelle immediatamente successive, lanciano così una sfida all’egemonia della cultura giuridica di stampo romanistico e si impegnano non solo sul terreno dell’unità del diritto privato (ritenendo normale che il giuscommercialista si occupi direttamente di temi classificabili come di diritto privato generale o di diritto civile), ma anche sul terreno della costruzione dogmatica e su temi di metodo e di teoria generale. A mio avviso, questa stagione si chiude con la prematura scomparsa di due grandi personalità, pur tra loro in contrasto: Tullio Ascarelli e Walter Bigiavi. Dopo di loro, la disciplina, pur mantenendo una produzione dottrinale di qualità, è apparsa incline a ripiegare entro la gabbia dorata del tecnicismo e dello specialismo (anche nel senso della suddivisione interna della materia); e pur con qualche eccezione (come, per esempio, Francesco Denozza o Francesco Galgano).


2. Differenze e possibili analogie fra i due libri recensiti.

Quasi a smentire questa mia ricostruzione, sono stati pubblicati negli ultimi anni, a distanza di poco tempo l’uno dall’altro, due libri di teoria generale del diritto scritti da giuscommercialisti affermati [1], dotati di una lunga esperienza di studi di diritto positivo, e che pure hanno avvertito il bisogno, nel momento della piena maturità della loro esperienza di studiosi vissuta all’interno della disciplina accademica del diritto commerciale, di esternare le riflessioni da loro maturate sulla teoria del diritto in generale. Si tratta di due libri molto diversi fra loro: quello di Terranova è il frutto di un lungo dialogo interiore di un giurista positivo con le elaborazioni dei cultori di teoria generale e di filosofia del diritto e si rivolge al giurista colto, già uso ad interrogarsi sulle grandi questioni della filosofia e della metodologia giuridica. Quello di Di Cataldo è invece una autobiografia intellettuale più diretta, che volutamente prescinde da un dialogo esplicito con le teorie altrui ed espone immediatamente le conclusioni cui l’autore è giunto sui vari temi affrontati, con l’ambizione di tradurle in un testo divulgativo, atto a fare comprendere il funzionamento dei fenomeni giuridici anche al pubblico generale. La lettura dei due libri fa sorgere, fra le altre, due domande: se, malgrado la profonda diversità strutturale, i due libri siano accomunati da qualche motivazione profonda comune; se i due libri rappresentino espressioni marginali, al di là della coincidenza temporale, nell’evolversi della disciplina, o invece rappresentino momenti di emersione di un bisogno culturale più profondo, che pervade la disciplina stessa nella sua interezza. Un dato estrinseco, costituito dalla comune origine siciliana dei due autori (e, peraltro, anche dell’attuale recensore), potrebbe non essere casuale [2]; ma potrebbe anche fornire argomenti per risposte di segno opposto ai quesiti sopra segnati; il tema può essere quindi per ora accantonato.


3. L’ Elogio dell’approssimazione di Giuseppe Terranova.

Poste queste premesse, si può passare a una rapida sintesi del contenuto dei due volumi, cominciando da quello di Terranova. muove da una premessa filosofica, individuando due atteggiamenti dello spirito a cui attribuisce importanza essenziale per la comprensione del diritto: la tolleranza, come atteggiamento indispensabile per tenere coesa la società, e l’approssimazione (intesa come attitudine a procedere per tentativi ed errori, riconoscendo di potere avvicinarsi alla verità senza mai raggiungerla), come passaggio indispensabile di ogni progresso scientifico. Su queste basi egli affronta il problema centrale della metodologia giuridica dell’ultimo secolo: da un lato, il superamento del positivismo legalistico rigido, che pretendeva di trovare nei testi di legge la risposta oggettiva ad ogni problema giuridico, attribuendo all’interpretazione un carattere propriamente cognitivo; dall’altro le tesi che, muovendo dalla constatazione della necessaria apertura del linguaggio normativo, portano ad attribuire al giurista/interprete un potere creativo sostanzialmente illimitato. Per T. è necessario seguire una via mediana: rifiutare il formalismo interpretativo assoluto senza per questo rinunziare al criterio della fedeltà ai testi normativi (poi ridenominato “fedeltà al sistema”); il problema centrale diviene dunque quello di limitare la discrezionalità interpretativa, al fine di evitare che le regole di funzionamento della vita civile siano affidate a decisioni assunte caso per caso, su basi equitative, cioè affidate al mutevole sentimento del singolo giudice. Il superamento del dilemma non può fondarsi, secondo T., sullo scetticismo moderato di Hart, che distingue ampie zone di luce e limitate zone di “penombra” nei testi normativi; anzitutto perché questo orientamento non fornisce criteri per la soluzione dei “casi difficili”, cioè per orientarsi nella penombra. Inol­tre, e soprattutto, perché le stesse zone di luce del testo rappresentano un’en­tità problematica. Secondo T. anche l’interpretazione prettamente antilet­terale è, eccezionalmente, ammissibile, quando vi sia un “consenso diffuso” e “argomentazioni particolarmente forti” (p.e. violazione di un principio, esigen­za di evitare risultati assurdi). La via d’uscita al problema [...]


4. Condivisione dello scetticismo moderato e possibili sviluppi delle tesi di Terranova.

Nel formulare un giudizio sul libro, devo dire subito che le tesi esposte da T. sono – a mio avviso – convincenti e non sollevano critiche di merito. Esse si muovono, anzi, su un terreno nel quale è facile ritrovarsi. L’impianto argomentativo ha una trama solida, anche se l’esposizione tende un po’ alla asistematicità. Si può aggiungere che le tesi di T. hanno – se mi è consentito dirlo – una solida cornice filosofica, che si inserisce nella grande tradizione del relativismo occidentale, critico verso le asserzioni di verità assoluta, ma fiducioso nell’impiego di una razionalità che, se pur limitata, costituisce un antidoto alle tentazioni dello scetticismo assoluto. Una volta riconosciuto il valore del libro di T., possono solo formularsi due osservazioni (non vere e proprie critiche), che in qualche modo segnalano limiti e possibili sviluppi del ragionamento svolto. La prima osservazione riguarda la non grande evidenza data alla presenza, nel dibattito teorico, di altri orientamenti di scetticismo moderato, più articolati di quello di Hart, espressamente criticato dall’a. Mi sembra che sia possibile collocare le proposte dell’a. in questo filone di pensiero, al quale possono ascriversi diversi contributi metodologici recenti (p.e. Velluzzi, Gentili, Pino) [3]. Punto centrale di questo orientamento, messo bene in luce dallo stesso T., è che le questioni interpretative presentano sempre margini di discrezionalità, ma non per questo possono essere risolte in modo arbitrario e irrazionale: il giurista si trova ad operare in un determinato contesto socioculturale ed economico e le soluzioni interpretative devono essere sempre scelte entro una gamma di risultati compatibili con i condizionamenti posti da quel contesto. Nell’ambito di questo filone è importante la critica allo scetticismo radicale (in Italia rappresentato, per esempio, in alcuni scritti di Monateri), in quanto viziato da astrattezza e impraticabilità. Ancora più importante è il rilievo che questo filone di pensiero attribuisce ai giudizi di valore, visti come una componente essenziale del processo interpretativo. Da qui l’indicazione metodologica, su cui tanto insisteva Ascarelli, relativa all’esigenza di esplicitare i giudizi di valore che ispirano il risultato interpretativo e di coltivare la discussione razionale [...]


5. A che cosa serve il diritto di Vincenzo Di Cataldo.

Passando al contenuto del libro di V. Di Cataldo, ci si trova inseriti in una prospettiva completamente diversa: il diritto su cui si riflette non è quello di cui si discute nei libri di teoria giuridica, ma non è neanche quello del giurista “pratico”, concentrato sui problemi dell’esercizio quotidiano della professione e dell’organizzazione della Giustizia. È piuttosto quello dell’espe­rienza giuridica concretamente vissuta da un giurista colto, che riflette, con tut­to il suo bagaglio di cultura generale, sul presente e sul futuro di questa esperienza. La prima parte della riflessione di D.C. si svolge in chiave antropologica e sociologica. Osserva così D.C. che la necessità di superare il ricorso esclusivo alla forza per risolvere i conflitti si ritrova già in forme di ritualità animale (particolarmente istruttivi gli studi sui comportamenti dei grandi primati). Homo sapiens è andato oltre, inventando diversi tipi di regole comportamentali, tra cui fonda­mentali quelle religiose. In questo processo rimane sempre centrale l’esi­gen­za primordiale di modellare effettivamente le condotte di individui e gruppi, sì da evitare fenomeni disgregativi dell’organizzazione sociale. Osserva D.C. che anche l’organizzazione sociale odierna, pur così complessa, si regge pur sempre su un catalogo di regole comportamentali primordiali, che non è stato mai adeguatamente studiato (in effetti, i teorici del diritto naturale hanno avuto per la testa altri problemi). Da qui l’appello di D.C. a che lo studio del diritto si apra ai contributi delle scienze naturali e che gli studiosi di scienze naturali ed umane si occupino di più del diritto [6]. Poste queste basi, D.C. vede il diritto, come sistema distinto da altre regole sociali, come un adattamento evolutivo, affermatosi in modo indipendente in diverse civiltà antiche (appena accennato è, in D.C., l’omaggio rituale al­l’in­venzione dello ius nella civiltà romana). La proprietà del diritto è quella di es­sere il risultato dell’elaborazione consapevole di gruppi sociali incaricati di porre ed applicare regole. Nelle organizzazioni sociali più evolute questi grup­pi si arricchiscono di specializzazioni interne: così si creano una giurisprudenza e una dottrina, come [...]


6. La pars construens del libro di Di Cataldo. Un’osservazione: necessità di distinguere tra cultura della mediazione ed esigenza di giustizia predittiva.

L’ultima parte del libro di D.C. contiene una impegnativa pars construens. L’a. muove dalla sua idea di fondo, per cui il diritto serve a modellare i comportamenti volontari delle persone, mediante la formulazione di regole suscettibili di applicazione spontanea, e non a creare una serie di arcane conoscenze possedute in esclusiva dai giurisperiti. Tuttavia, si deve riconoscere che la crescita della socializzazione, che si vede nel nostro presente e nel nostro futuro prossimo, fa prevedere un’ulteriore crescita delle regole di diritto che condizioneranno le vite delle persone (difficile pensare ad un incremento futuro di altri sistemi di regole). Vi è dunque un’esigenza oggettiva – non un semplice auspicio – di crescita dell’osservanza spontanea delle regole di diritto. Ma questo, secondo D.C., non significa che sarà superata la funzione dei giuristi di professione. Questi dovranno, piuttosto, essere capaci di assecondare l’osservanza spontanea delle regole giuridiche e divenire tecnici della prevenzione e della composizione delle liti. Il ricorso al giudice non può superare limiti quantitativi compatibili con un’organizzazione efficiente della giustizia. Sul piano della repressione, se le infrazioni superano una soglia critica e l’inosservanza delle regole si diffonde, le finalità di cooperazione dell’ordinamento giuridico sono frustrate. Sul piano delle liti civili, la soluzione giudiziaria è tendenzialmente “rozza”, incapace di risolvere nel modo concretamente più appropriato il conflitto portato dinanzi al giudice. Il diritto moderno ha giustamente circondato l’operato del giudice di mille garanzie, che però impediscono l’adozione di rimedi duttili e penetranti. Perciò la decisione giudiziaria dà luogo, quasi sempre, ad una soluzione subottimale del conflitto. Un rimedio non può esser dato dall’aumento dei costi della lite. Questo porterebbe ad una discriminazione fra cittadini. Il rimedio consiste, invece, nel portare quante più liti possibile fuori dai Tribunali. Con i numeri attuali, nessuna riforma della Giustizia può avere successo in Italia. L’unica soluzione possibile è dunque quella di sviluppare gli strumenti di composizione volontaria della lite. Da qui la proposta finale di D.C.: la cultura dell’avvocato e l’educazione del giurista [...]


7. Condivisione delle idee di fondo del libro di Di Cataldo.

La valutazione di un libro dalla struttura originale, come quello di D.C., non è semplice, perché deve misurarsi con lo scopo che esso si pone. Il libro non si presenta come una monografia “scientifica”; è infatti privo di citazioni e, per ogni problema affrontato, va subito alla conclusione e non si preoccupa di informare il lettore sullo “stato dell’arte”. Il libro sembra dettato soprattutto dall’urgenza di trasmettere un messaggio forte (non a caso, il titolo è assertivo e non contiene il punto interrogativo, che sarebbe stato più consono allo stile comunicativo standard di questi tempi). L’a. ha pensato di scrivere un’opera divulgativa, destinata a far comprendere l’indispensabilità di un patrimonio di base di nozioni giuridiche condivise da tutti i cittadini, per consentire il buon funzionamento della vita sociale. Se è così, lo scopo probabilmente non può dirsi realizzato: non credo che il non-giurista possa, dopo la lettura del libro di D.C., avere idee più chiare su come le norme giuridiche modellano la vita sociale, e tanto meno sui principi e concetti giuridici fondamentali, che, nella tesi dell’a., dovrebbero essere patrimonio comune di ogni cittadino. In realtà, il libro contiene la riflessione di un giurista colto, rivolta ad altri giuristi colti, incentrata, come si è detto, su un messaggio forte: il diritto è uno strumento necessario (e, oggi, il principale) per mantenere la coesione sociale, e la sua funzione è quella di guidare la condotta delle persone e non di alimentare i repertori di giurisprudenza. Il diritto serve dunque a prevenire non solo l’uso della violenza privata – come sempre si è insegnato, nelle prime pagine dei manuali di diritto – ma anche il ricorso al contenzioso giudiziario, che dovrebbe essere considerato come extrema ratio. Si tratta di un’idea suggestiva, che non può lasciare indifferenti. È da temere, però, che nelle discussioni correnti la sua importanza sia trascurata, anche perché, per una scelta comunicativa dell’a., essa è presentata con un tono che non mette in evidenza il carattere dirompente della proposta culturale formulata; e il contrasto che essa determina con basi radicate della esperienza giuridica occidentale. Personalmente trovo che le conclusioni di D.C., con le [...]


8. I tratti comuni dei due libri: l’aspirazione verso una dottrina giuridica “alta” e il suo possibile anacronismo.

Al fine di formulare qualche riflessione conclusiva, è da chiedere se, fra i due libri recensiti, pur così diversi, ci sia un percorso comune. Apparentemente, più no che sì. Eppure, ci sono tratti comuni del ragionamento, che possono indurre a pensare che i due libri siano fra loro complementari e non privi di comunicazione. In ambedue i libri vi è infatti una traccia condivisa: la convinzione che il diritto abbia una base antropologica, che ne fa un sistema di regole sociali destinato primariamente a sostenere la coesione sociale, mediante la spontanea osservanza delle regole da parte degli individui; la convinzione che il diritto contemporaneo sia necessariamente complesso e perciò affidato all’attività di un ceto professionale di giuristi; la convinzione che l’attività dei giuristi non sia – e non debba divenire – un insieme di decisioni arbitrarie di controversie, ma debba fornire alle stesse soluzioni discrezionali ma non arbitrarie, sulla base di criteri accettati nel contesto socioculturale in cui il giurista si trova ad operare. Questa traccia è sviluppata dai due autori, evidentemente, in termini molto diversi. Per T. la riflessione antropologica e sociologica è solo un esile spunto, dal quale si giunge rapidamente all’autocoscienza del giurista colto nel mondo di oggi. Tutta la sua riflessione si muove sul terreno di problemi che hanno dato luogo a ricche riflessioni teoriche e la sfida dell’a. è quella di cimentarsi, con ammirevole consapevolezza ed erudizione, in queste dispute, e formulare sulle stesse proposte di soluzione serie e meditate. Anche nell’Appendice, ove vengono trattati temi di diritto positivo, T. chiaramente predilige argomenti sui quali si sono sviluppate ricche e complesse discussioni dottrinali, che vengono affrontate con lo stesso stile che è stato dedicato ai problemi di teoria generale. C’è in questo approccio il fascino innegabile del muoversi su dispute intellettuali già ricche di contenuti, ma anche un rischio: quello di privilegiare problemi del passato (si veda l’attenzione dedicata da T. alla teoria dei titoli di credito) e di trascurare temi più attuali del diritto dell’impresa e dei mercati. Rimane in ogni caso, al fondo, un messaggio forte di fiducia nei compiti della dottrina giuridica e nella sua capacità di contribuire allo sviluppo [...]


NOTE