Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Lo scopo della società: dall'organizzazione al mercato (di Francesco Denozza, Professore emerito di diritto commerciale, Università degli Studi di Milano)


Sommario/Summary:

1. L’organizzazione. - 2. Il mercato. - 3. Conclusioni. - NOTE


1. L’organizzazione.

Un punto che dovrebbe essere adeguatamente chiarito, e che invece è relativamente poco dibattuto, è se una modifica dello “scopo” della società in direzione di un allargamento del novero degli interessi che l’impresa deve soddisfare, anche al di là di specifici obblighi legislativi e contrattuali,  sia un fine in sé, o sia invece un semplice strumento rispetto ad un fine principale che, secondo un diffuso ritornello, sarebbe oggi principalmente quello di rivalutare il perseguimento di obiettivi di lungo periodo, e perciò di rovesciare l’attuale prevalente diffusione di orientamenti al breve. È evidente che le due prospettive possono sollecitare interventi (e comportare implicazioni) molto diversi. Ciò premesso, e facendo riferimento (in attesa di migliori chiarimenti) al generico obiettivo di incorporare gli interessi di stakeholders non finanziari tra quelli che la società ha lo scopo di perseguire, la prima domanda che occorre porsi è: da cosa dipende il fatto che le società perseguano in concreto la soddisfazione degli interessi di una o di altra categoria di soggetti? Sul piano istituzionale mi sembra che l’ovvia risposta debba essere: dipende, in parte, dalla definizione giuridica dello scopo della società, e, in parte, dalle regole relative alla sua costituzione e al suo funzionamento. Un progetto di allargamento dello spettro degli interessi rilevanti deve perciò tenere conto di entrambi questi fattori (definizione giuridica dello scopo/ struttura corporativa e patrimoniale). Entrambi gli elementi che stiamo considerando (scopo legale e struttura) ben possono variare in misura considerevole secondo le epoche e/o gli ordinamenti considerati e quindi un discorso generale può rivelarsi problematico. Ad un certo livello di astrazione alcune osservazioni teoriche sui due fattori, e sui legami tra di loro, si possono tuttavia fare, considerato anche che la struttura complessiva in cui la loro operatività si inscrive è (ripeto, ad un certo livello di astrazione) consolidata, con caratteri largamente similari, in tutti gli attuali ordinamenti occidentali. Partendo dallo scopo, a me sembra che sul piano legislativo il primo problema riguardi la definizione dei limiti alla possibilità che ogni società definisca da sé lo scopo che intende perseguire. Nel nostro ordinamento [...]


2. Il mercato.

Quanto precede riguarda le principali questioni che a mio avviso si pongono sul piano istituzionale. Poiché, però, come è evidente e come si è appena ricordato, il tema degli interessi perseguiti si intreccia con il tema dei rapporti di potere, e poiché i rapporti di potere preesistono alle norme, e ne sono in larga parte indipendenti, io credo che sia poco produttivo discutere di responsabilizzazione dell’impresa verso gli stakeholder preoccupandosi degli aspetti istituzionali, senza avere prima chiarito quale è la realtà con cui l’istituzione deve fare i conti. Su questo piano, a me sembra che il punto di partenza non possa che essere l’approfondimento del ruolo attualmente svolto dai soci. Non mi sembra dubbio che allo stato i soci hanno, rispetto ad altri stakeholder, una posizione assolutamente previlegiata. I soci costituiscono la società (prescindendo da interventi pubblici straordinari, nessuno stakeholder in quanto tale può costituire una società), possono decidere di farla cessare, nominano i gestori, ecc. Mi sembra, inoltre, che questi poteri giuridici riflettono un potere di fatto altrettanto rilevante. I soci controllano in genere la risorsa più mobile tra tutte quelle di cui l’impresa ha bisogno, quella che dal punto di vista materiale è più facile spostare da un impiego all’altro ed al cui accaparramento tutte le imprese sono in genere altamente interessate. Tornando allora a quanto osservavo all’inizio in ordine agli orientamenti di breve e di lungo periodo, mi sembra abbastanza evidente che se si pensa ai soci come soggetti in maggioranza votati all’egoismo e allo short-termism, non si può che ribadire che il semplice dar loro la facoltà di tenere conto, quando vogliono e lo ritengono opportuno, degli interessi degli altri stakeholders, sarebbe del tutto inutile. Soci votati a queste visioni, e a questi obiettivi, continueranno a fare, o continueranno ad imporre ai gestori di fare, quello che già fanno attualmente. Per pensare di andare oltre bisogna analizzare in maniera ben più approfondita i meccanismi che attualmente orientano le preferenze e i comportamenti dei soci. Il che vuole dire, in sostanza, passare dall’analisi dell’organiz­zazione e del ruolo che in essa svolgono i soci, all’analisi degli attuali [...]


3. Conclusioni.

Forse in questa situazione la migliore strada percorribile potrebbe essere quella di convincere gli investitori istituzionali ad accettare una rappresentanza, rigorosamente minoritaria, di stakeholders negli organi amministrativi delle società in cui investono (che per quanto riguarda i lavoratori esiste peraltro già in varia misura in quasi tutti i paesi europei, essendo Italia e UK le più importanti eccezioni). Misura che potrebbe essere presentata e, forse, accolta, come strumento per migliorare quella contrattazione con le esigenze degli stakeholders che neppure il più integralista sostenitore della shareholder primacy può pensare che possa essere in pratica costantemente evitata. Dubito che in questo modo si realizzerebbe una immediata modifica delle visioni imprenditoriali in direzione del lungo periodo, ma sarebbe comunque una conquista non priva di rilevanti potenzialità. Rispetto all’attuale politica dell’Unione, basata in sostanza sull’idea di indurre poco alla volta investitori e managers delle società in cui investono ad allargare i loro orizzonti, mi sembra che l’appello all’intervento diretto degli stakeholders e alla loro capacità di manifestare direttamente gli interessi che stanno più loro a cuore manifesterebbe una maggiore incisività e più realistiche prospettive di qualche effettiva trasformazione. Si tratta in sostanza di passare da una fase in cui il principale problema è presentato come quello di cercare di far sì che gli interessi degli stakeholders siano in qualche modo portati a conoscenza dei managers in modo da attirare la loro attenzione e auspicabilmente la loro cura (in fondo anche la direttiva sulla non-financial disclosure sostanzialmente si preoccupa molto di più di indurre i gestori a riflettere su quello che fanno, piuttosto che di dare a qualcuno qualche potere per incidere sul loro comportamento) ad una concezione dove invece ci si preoccupa di dare ai titolari degli interessi protetti gli strumenti perché possano essi stessi intervenire, e in tal modo condizionare il comportamento dei gestori, senza aspettare che questi ultimi decidano quali interessi di quali stakeholder meritano di essere presi in considerazione. Ovviamente le difficoltà possono essere molte, a cominciare dalla scelta [...]


NOTE