Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
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Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici (di Andrea Zoppini *)


Nel presente articolo l’Autore conduce un’indagine ponderata e in termini dubitativi sulla natura distintiva della società benefit, sottolineando le numerose difficoltà di dare una collocazione coerente alla nuova fattispecie nel più ampio quadro del diritto societario.

Benefit Companies vs Non-Profit Organizations: Systematic Implications and Critical Aspects

In this paper the Author enters a dubitative and thoughtful discussion on the distinctive nature of the benefit corporation and he points out the many difficulties of giving a coherent collocation of the new institution within the wider framework of corporate law.

KEYWORDS: benefit corporation – corporate law – non-profit organizations

Sommario/Summary:

1. Considerazioni introduttive - 2. Impatto sistematico delle società benefit - 2. 1 Fenomeni di destinazione altruistica e società benefit - 2. 2 Un rilievo critico sull’ibridazione tra profit e non profit - 3. Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici - 4. Rilievi conclusivi - NOTE


1. Considerazioni introduttive

Provo a svolgere talune considerazioni di ordine sistematico sulla società benefit - di cui all'art. 1, l. 28 dicembre 2015, n. 208, commi 376-384[1] - prescegliendo quale punto di osservazione gli enti non profit e la tipica destinazione altruistica del risultato della gestione sociale, che di tali enti è caratteristica[2]. Quando si affronta il tema della società benefit sùbito si propone una biforcazione, una recisa e netta scelta di campo. Bisogna decidere se non credere alla società benefit, reputando che il legislatore abbia in fondo creato una qualificazione di secondo grado ossia abbia proceduto a riqualificare fattispecie che già sono pacificamente ammesse nel sistema (così come avvenuto per la disciplina delle reti d'impresa)[3]; oppure, dare credito al legislatore e verificare fino in fondo se in questa fattispecie sia stato disciplinato un ibrido tra il profit e il non profit. Pur essendo simpatetico con la prima opzione - probabilmente condizionato dagli studi affrontati nel passato non recente -, provo a muovermi tra le molte e complesse problematiche dischiuse dalla società benefit nella seconda prospettiva, quella che riconosce l'autonomia della fattispecie e dà credito all'ibridazione causale (o tipologica). Questa prospettiva immediatamente sollecita quesiti di notevole rilievo, che investono sia il profilo funzionale sia quello organizzativo: ossia il perché ci si associa e il come si agisce in associazione[4], e segnatamente: a) perché l'organizzazione collettiva dell'impresa conosce normativamente modelli identificabili nel non lucro, nel lucro e nella mutualità; b) perché l'integrazione economica, l'accesso ai mezzi propri, al debito, la ripartizione del rischio di impresa conoscono regole diverse per gli enti non profit, per le società lucrative e per le società mutualistiche; c) in ultima analisi, perché - se volessimo veramente ascendere a una questione di vertice - esistono le norme imperative nel diritto dell'impresa collettiva[5]. Le questioni cennate reclamano un'indagine assai impegnativa che in queste pagine non è agevole né sarà possibile svolgere. Mi limiterò, pertanto, a svolgere talune considerazioni in relazione al fatto che chi crede all'ibridazione tra profit e non profit deve farsi carico di dare delle risposte coerenti a taluni interrogativi su cui ora mi [...]


2. Impatto sistematico delle società benefit

S'impongono - a me sembra - essenzialmente due questioni, riguardanti l'ammissibilità di forme organizzative ibride nell'ordinamento giuridico domestico, poi l'individuazione della disciplina concretamente e coerentemente applicabile. Provo a svolgere una separata analisi muovendo dalla prima questione, per considerare la quale è opportuno chiedersi cosa distingua, nel diritto vigente, un ente lucrativo e uno non lucrativo che esercita attività d'impresa commerciale (e poi uno mutualistico). L'elemento distintivo non si radica nell'attività esercitata, economica e/o ideale. Già nel passato la formula della "neutralità" delle forme giuridiche ha voluto acquisire nel rapporto tra enti lucrativi ed enti senza scopo di lucro[6] il sostanziale ripensamento della visione codicistica originaria, ove il dato topografico del codice civile nettamente separava gli enti commerciali e quelli non commerciali. Questa prospettiva ha significato la 'despecializzazione' delle varie forme giuridiche metaindividuali rispetto all'attività d'impresa, ammettendosi una compatibilità tipologica tra enti del primo libro del codice civile ed esercizio di attività economiche, anche nella forma dell'impresa collettiva[7]. Il sistema giuridico, pacificamente, consente la possibilità che associazioni e fondazioni possano esercitare attività d'impresa[8]. Ed è oggi fattualmente pacifico che in taluni settori del mercato si registri una compresenza, sul piano dell'offerta, di imprese costituite sia secondo le forme societarie lucrative sia attraverso i moduli non lucrativi nonché di imprese mutualistiche (affiancandosi, altresì, alle medesime, le società a controllo pubblico).              Pertanto, quando ci chiediamo cosa sia un ente non lucrativo o, meglio, cosa distingua un ente non lucrativo che esercita attività d'impresa commerciale da una società, poi da una società commerciale, la differenza fondamentale attiene all'assenza dello scopo di lucro in senso soggettivo, quindi nella possibilità di ripartire l'utile di gestione o di appropriarsi del supero netto al momento della liquidazione. L'assenza dello scopo di lucro postula dunque che la compatibilità causale tra l'esercizio di attività imprenditoriali e l'assenza di un lucro soggettivo è data dal fatto che [...]


2. 1 Fenomeni di destinazione altruistica e società benefit

In secondo luogo, al fine di giustificare l'autonomia causale e tipologica della società benefit, mi pare che i sostenitori della novità della fattispecie debbano farsi carico di distinguere concettualmente e normativamente questo fenomeno da quanto già si riteneva possibile fare prima dell'entrata in vigore dell'attuale disciplina. Si è comunemente ritenuto che l'introduzione di clausole altruistiche nello statuto di una società di capitali non determinasse una alterazione del tipo sociale, né pregiudicasse la causa lucrativa[12]. La clausola di destinazione altruistica non contraddice lo scopo di lucro proprio della società ma, anzi, può inserirsi funzionalmente nella dimensione strategica dell'attività d'impresa[13]. Al fine di agevolare la riflessione, provo a fornire due esempi. i) Lo statuto d'un'importante banca italiana prevedeva, sino a non molto tempo addietro, una clausola giusta la quale "a ogni esercizio dovranno essere pagati 60.000 euro annui a[d una] società operaia bolognese". Tale previsione, della cui validità ed efficacia si è discusso, ma non dubitato, pone il problema di qualificare la natura della disposizione: se si tratti di una previsione parasociale inserita nello statuto ovvero di una ipotesi di contratto a favore di terzo o da eseguirsi ad un terzo documentata nel materiale statutario. Nell'analisi del problema, per richiamare un paradigma caro a Paolo Ferro-Luzzi, il metodo civilistico e quello gius-commercialistico divergono in maniera significativa: il civilista va alla ricerca dello spirito di liberalità, dell'atto pubblico, si chiede se sia concepibile inserire un contratto a favore di terzi nello statuto; il gius-commercialista vede un atto di organizzazione che vincola gli amministratori, ma che certo non preclude l'esercizio del procedimento assembleare di modifica dello statuto. Quello appena descritto è, tuttavia, un fenomeno che direttamente rientra nel perimetro della società benefit: un vincolo statutario che legittima e positivizza una scelta di carattere ideale, a vantaggio di interessi esterni alla società e, al contempo, condiziona l'attività degli organi gestori. ii) Su un altro elemento ritengo sia opportuno attirare l'attenzione, visto che costituisce - a mio parere - una dura prova di resistenza per la società benefit: la mutualità esterna. È pacifico, e lo [...]


2. 2 Un rilievo critico sull’ibridazione tra profit e non profit

In termini sistematici, teorizzare l'introduzione di un ibrido tra profit o non profit porta indubbiamente acqua al mulino di chi, anche nel nostro ordinamento, ha ritenuto che fosse opportuno transitare verso un modello alla 'tedesca' - se mi si consente la semplificazione - in cui gli enti si identificano sul piano essenzialmente strutturale, quindi in ragione dell'organizzazione dell'attività economica comune, essendo irrilevante poi la divisione dell'utile. Già ho ricordato la tesi della neutralità delle forme giuridiche di Gerardo Santini[15], ma un saggio di Sabino Cassese degli anni novanta del secolo scorso affermava la tesi in ordine alla quale l'elemento del lucro soggettivo è diventato completamente recessivo rispetto al modello organizzativo strutturale[16]. Personalmente, non condivido questa impostazione sia in termini teorici sia sul piano normativo e ritengo che nel nostro sistema vi siano indici normativi concludenti in ordine al fatto che debba sussistere una necessaria coerenza tra il sistema degli incentivi di quanti hanno i poteri decisionali sull'ente, l'affidamento dei terzi e le regole che disciplinano la destinazione egoistica o altruistica del risultato dell'attività sociale. Traggo l'argomento più significativo dalle norme in materia di trasformazione eterogenea[17]. La riforma del diritto societario ha introdotto delle regole sicuramente innovative che consentono ciò che non era consentito prima, di trasformare l'ente non profit in profit e così come la società cooperativa, fissando, tuttavia regole imperative stringenti. Infatti, la disciplina che si legge agli articoli 2500-septies s. c. civ. attribuisce un notevole rilievo al vincolo di non distribuzione degli utili e del supero netto al momento della liquidazione dell'ente e, più, in generale al rapporto tra destinazione dei risultati dell'attività e il potere dispositivo dei soci o degli organi della associazione o della fondazione[18]. Si tratta di una disciplina che ben si presta ad una lettura in chiave neo-istituzionale, cioè nella prospettiva della teoria dei costi transattivi in relazione alla tutela dei soggetti che fanno affidamento sui vincoli statutari, atteso che: i) le cooperative si possono trasformare ma debbono devolvere le riserve indivisibili - che sono state create sul presupposto dei benefici di natura privatistica e pubblicistica di cui la cooperativa gode - ai [...]


3. Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici

Il secondo e diverso piano di analisi - cui facevo riferimento ad apertura di queste pagine - concerne il sistema di regole strutturali e organizzative che devono assistere e rendere coerente l'esistenza di un ibrido tra una gestione profit e la gestione benefit del risultato sociale. Nella sostanza si tratta di riempiere di senso precettivo il necessario bilanciamento tra l'interesse egoistico dei soci a massimizzare la remunerazione del capitale investito[19] e il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle categorie indicate nel comma 376 della legge istitutiva[20]. Non sovvenendo un'espressa risposta dalla nuova disciplina, taluni propongono quale stregua della correttezza della gestione sociale il modello normativo che si desume dalla disciplina della direzione e coordinamento di società ai sensi degli artt. 2497 ss. c. civ.[21]. I criteri normativi colà proposti fungerebbero da bussola per l'operato degli amministratori e da indici di misurazione della correttezza gestoria. A livello procedurale - per via del coordinamento della disciplina del conflitto d'interessi con quella dei gruppi societari -, graverebbe sugli amministratori un dovere di trasparenza e motivazione delle decisioni adottate ai fini di assicurare il bilanciamento tra gli interessi delle distinte (ma compresenti) constituencies della società[22]. In termini sostanziali, per governare il conflitto divenuto attuale, si registra una divergenza tra la soluzione che declina il contemperamento degli interessi alla stregua del criterio dei vantaggi compensativi[23] e chi fissa l'ordine di preminenza degli interessi perseguiti, qualora risulti impossibile una realizzazione congiunta, in ragione delle priorità assunte dalla società nello statuto, così come espresse nella relazione annuale[24]. Personalmente ritengo che il riferimento alla disciplina dei gruppi di società non costituisca un idoneo referente normativo che consenta di apprezzare il contemperamento degli interessi gestionali nella società benefit. Piuttosto, per individuare la convivenza di gestioni caratterizzate da finalità diverse, credo che il parametro di riferimento più corretto sia costituito dalla disciplina delle azioni correlate (art. 2350, c. 2, c. civ.) e dei patrimoni destinati (art. 2447-bis ss. c. civ.)[25] [26]. Da un lato, le azioni correlate ai risultati dell'attività sociale in [...]


4. Rilievi conclusivi

Propongo una riflessione conclusiva. Come è stato ben rappresentato - in particolare da Francesco Denozza - attorno alla società benefit si agitano problemi concernenti la responsabilità sociale d'impresa, l'agency theory e il ruolo degli amministratori che concorrono a renderne complesso l'inquadramento nel sistema. Un'idea che si agita dietro la disciplina delle società benefit, malgrado non mi senta di sottoscriverla, potrebbe coincidere con l'intenzione d'un legislatore desideroso solo di imitare fenomeni esterni[29]. Una delle letture che merita qualche attenzione è quella foucaultiana, improntata in termini di governamentalità neo-liberale dell'impresa. Si tratta, infatti, di guardare alle regole del diritto scritto quali forme di produzione di cornici ontologiche e agli effetti che determinano in termini di legittimazione e creazione di nuove soggettività sociali[30]. Va tenuto a mente che il potere oggi si manifesta nelle imprese e l'impresa quindi deve essere governata, anche, con regole che prima venivano lette e decodificate, solamente, nella dinamica del diritto pubblico. Un indice è offerto dalle regole di governance societaria che prescrivono la parità di genere sia in seno ai consigli di amministrazione delle società quotate in mercati regolamentati (art. 147-ter, c. 1-ter, TUF) sia all'interno degli organi amministrativi delle società a controllo pubblico (così, art. 11, c. 4, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175). L'impresa esige delle regole che, in un certo senso, potrebbero coerentemente risultare appannaggio del sistema dell'organizzazione pubblica[31. La logica della composizione dei consessi gestori appare inspiegabile se non si prendesse atto che proprio la legittimazione sociale dell'impresa, che deriva dal suo essere nel mercato, è la ragione che autorizza e coonesta le istanze di parità di genere. L'impresa come organizzazione diviene così lo strumento performativo per tradurre nella vita dei cittadini aspettative proprie piuttosto della sfera politica e rivenienti dalla partecipazione democratica alla vita del Paese. Questo mi pare il senso della società benefit, in quanto tenta la coesistenza tra una missione egoistica e compiti afferenti alla sfera sociale e pubblica in senso lato.             In termini di complementarietà tra logiche private e logiche [...]


NOTE