Nella ricerca di strategie di sostenibilità, legislatori, autorità e studiosi concentrano spesso l’attenzione sulla dimensione temporale dell’agire sostenibile, agevolando così la riemersione, per la verità ricorrente in diritto societario, della contrapposizione tra i concetti di long-termism e short-termism. Il favor per una prospettiva di lungo termine, da una parte, e i tentativi di arginare lo short-termism, dall’altra, sono spesso i punti fermi degli interventi regolatori più recenti sul tema.
Il presente contributo si propone di rivalutare in chiave critica la suddetta contrapposizione, mettendo in luce alcuni dei temi su cui appare urgente un intervento normativo e suggerendo l’abbandono del frequente accanimento verso lo short-termism.
The focus of legislators, authorities and academics on the temporal dimension of sustainable actions has led to the progressive re-emerge of the contrast between long-termism and short-termism, that is frequent indeed in corporate law. The orientation to long-term decisions and attempts to stem the short-term ones have been a main point of recent legislative measures on this topic.
This paper aims to critically re-evaluate the above contrast, highlighting some of the most relevant areas that most need regulatory interventions and suggesting abandoning the frequent short-term disfavor.
Keywords: sustainability – corporate responsibility – corporate governance – economic sustainability
CONTENUTI CORRELATI: sostenibilità - responsabilità sociale - corporate governance - sostenibilità economica
1. Le ragioni del diffuso favore per il long-termism. - 2. Sostenibilità, lungo termine e breve termine nelle legislazioni nazionali. - 3. (Segue): … e nella disciplina europea. - 4. Le ragioni di una critica. - 5. Questioni irrisolte e proposte di intervento. - NOTE
I temi della sostenibilità delle attività economico-produttive e della responsabilità sociale delle imprese sono ormai una costante nelle agende dei legislatori e delle autorità nazionali e sovranazionali [1]. Tuttavia, se, da una parte, è certamente vero che le crisi economiche degli ultimi anni – e, da ultimo, l’emergenza sanitaria [2] – hanno acuito l’interesse per il ruolo sociale della grande impresa azionaria [3], dall’altra, i tentativi di indirizzarne i comportamenti in senso socialmente responsabile rimangono ancora timidi. Un dato che però non va sottovalutato è quello per cui gli sforzi regolatori sembrano essersi recentemente spostati dal tentativo di incentivare le imprese e, in particolare, la grande società per azioni, al compimento di azioni filantropiche, che esulano dall’oggetto dell’attività d’impresa, ma giustificate dall’intrinseco ruolo sociale delle società [4] (in conformità alle più tradizionali teorie sulla responsabilità sociale d’impresa [5]), a quello di proporre un modello d’impresa che svolga l’attività economico-produttiva che le è propria, ma in modo sostenibile. In altre parole, non si chiede più (soltanto) alle imprese di compiere operazioni di beneficienza, quanto piuttosto di produrre beni e servizi – di eseguire, cioè, il proprio oggetto sociale – secondo strategie di sostenibilità. In tal senso, le antiche teorie della responsabilità sociale d’impresa sembrano fare da sfondo ad un dibattito che riguarda più specificamente le esigenze di regolamentazione degli obiettivi di sostenibilità. Il concetto di sostenibilità è, tuttavia, di difficile definizione ed opera su più piani [6]: ad un primo tentativo definitorio della UN Conference on Human Environment del 1972 – che si riferiva all’utilizzo di risorse naturalmente rinnovabili [7] – se ne sono aggiunti altri con un’attenzione non solo per l’ambiente, ma anche per l’economia e la società in generale. In ambito finanziario, ad esempio, si ricorre al noto acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) [8] al fine di indicare tutte le attività legate all’investimento responsabile che [...]
L’esempio tipico della tendenza descritta è quello inglese: il Companies Act, ritenuto espressione della nota (quanto da più parti criticata) teoria dell’enlightened shareholder value [16], alla Sec. 172 stabilisce che l’interesse sociale vada inteso quale aspettativa alla massimizzazione del valore delle partecipazioni sociali, ma in ottica di lungo termine, cioè in un’ottica che tenga conto di tutte le constituencies (le aspettative) interessate e che non si riferisca solo ai soci attuali. La prospettiva di lungo termine dovrebbe consentire di inserire, all’interno dell’interesse proprio dell’azionista, anche gli interessi degli stakeholders, identificando tuttora lo scopo sociale nel firm value, ma in una (indefinita) prospettiva temporale più ampia. Il legislatore inglese chiede agli amministratori di agire «in good faith», promuovendo «the success of the company for the benefit of its members as a whole», avendo riguardo all’impatto che le scelte e le decisioni assunte producono nel lungo periodo sugli stakeholders [17], pur tuttavia lasciando ampio margine di discrezionalità all’organo amministrativo nell’individuare cosa significhi lungo termine. La portata innovativa di tale disposizione, come pure rilevato, appare piuttosto contenuta [18], avendo mantenuto di fatto inalterata la discrezionalità degli amministratori nel perseguimento degli interessi sociali. Si è detto invero che la «Section 172 CA 2006, similarly to the old common law duty, continues to impose a subjective test in decision-making, so that the business decision is left to directors and courts will not interfere in the judgment made» [19]. Ciò sembra peraltro confermato da una copiosa casistica [20], da cui risulta invariata l’attenzione primaria dei managers verso l’interesse degli azionisti. Anche la Francia, recentemente modificando, con la Loi Pacte (Plan d’action pour la croissance et la transformation des entreprises, contenuto nella Loi relative à la croissance et la trasformation des entreprise) del 22 maggio 2019, il proprio Codice Civile, e in particolare gli artt. 1833-1835 c.c., nonché il Code de Commerce, a partire dall’art. L. 225-35 sui doveri dell’organo amministrativo – con conseguente modifica anche del Code de gouvernement [...]
Allo stesso modo, il legislatore europeo, quando affronta le tematiche della sostenibilità, ricorre frequentemente al concetto di lungo termine [30]. Sembra che l’Unione Europea stia prendendo progressivamente atto che la causa principale delle crisi finanziarie sia il mancato controllo da parte dei soci sull’operato dei managers e, in particolare, sulle decisioni di assunzione di rischi eccessivi e ciò, secondo il legislatore europeo, si deve all’atteggiamento culturale di fondo dello short-termism [31]: da una parte, gli amministratori puntano sulle più alte remunerazioni immediate, garantite dall’assunzione di rischi elevati (anche a costo di perdite altrettanto elevate – se non ancora più elevate – nel futuro) e, dall’altra, i soci omettono qualsiasi forma di monitoraggio di tali rischi. L’obiettivo sarebbe allora quello di ripristinare il ruolo delle visioni di lungo periodo, proponendo una nuova figura di investitore che, al di là delle caratteristiche dell’investimento, sia attento non più soltanto alla massimizzazione degli utili, ma anche ai fattori che possono incidere sulla sopravvivenza dell’impresa, monitorando e sorvegliando l’assunzione dei rischi. L’obiettivo dello sviluppo sostenibile di lungo periodo è presente in numerose legislazioni europee. Un primo esempio è quello del Piano d’azione per finanziare la crescita sostenibile (Comunicazione della Commissione 2018/97 [32]), che, in linea con l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile [33], favorisce uno sviluppo che soddisfi le esigenze delle generazioni presenti e future, creando nel contempo nuove opportunità di occupazione e investimento nonché garantendo la crescita economica. Tra le iniziative presentate dal Piano, l’Azione n. 10 prevede la promozione di un governo societario sostenibile e l’impegno ad «attenuare la visione a breve termine nei mercati dei capitali». Il richiamo alla prospettiva di lungo termine in relazione alla sostenibilità è contenuto anche nella Shareholder Rights Directive II (direttiva UE 2017/828 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2017 che modifica la direttiva 2007/36/CE per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine [...]
Nonostante il tentativo diffuso di abbandonare le dichiarazioni di principio sullo scopo della società e sui doveri degli amministratori e di privilegiare invece soluzioni normative concrete [48], non sembra che l’esigenza di individuare con accuratezza i confini dei concetti di long-termism e short-termism – come visto così presenti nella ricerca di strategie di sostenibilità – sia particolarmente sentita [49], con la conseguenza primaria che le imprese hanno un’ampia discrezionalità nell’assunzione di performance di sostenibilità [50]. Un unico tentativo definitorio della prospettiva di lungo termine è forse quello del Technical Advise to the European Commission on integrating sustainability risks and factors in MiFID II di ESMA, in cui si riporta che i destinatari del questionario proposto, interrogati sul significato di breve e lungo termine, hanno individuato il breve termine in un orizzonte temporale inferiore ai 6 anni e il lungo termine in un orizzonte temporale oltre i 6 anni. È però dubbio che quella fornita possa essere una definizione universale dell’orizzonte temporale da tenere in considerazione nell’elaborazione di ogni politica sostenibile. In linea di principio, le decisioni di breve termine vengono ricondotte dagli studiosi al (piuttosto generico) obiettivo della massimizzazione dello shareholder value [51], mentre le seconde, cioè le decisioni assunte in ottica di lungo termine, dovrebbero invece presupporre una visione d’insieme del valore dell’impresa che tenga conto anche di fattori di sostenibilità [52]. In altre parole, una decisione con effetti nel breve termine sarebbe frutto di una scelta volta a valorizzare maggiormente risultati economici immediati a discapito della creazione di valore durevole e in pregiudizio della sostenibilità dell’impresa, mentre “lungo termine” sembrerebbe un concetto aperto che richiede uno sforzo interpretativo più attento e che spesso viene arricchito di una componente etica molto forte. In realtà, neppure per chi ritiene che l’unico obiettivo degli amministratori sia quello della massimizzazione dello shareholder value [53], potendo richiedersi alle imprese di adottare strategie di sostenibilità solo se funzionali a tale obiettivo, la distinzione tra breve e lungo termine è [...]
Ove si ritenga che la ricerca di strategie di sostenibilità non possa che passare attraverso regole di indirizzo dell’operato degli amministratori, sarebbe forse più urgente una risposta specifica al quesito – come peraltro ha evidenziato il summenzionato studio on directors’ duties and on sustainable corporate governance – circa la legittimazione degli amministratori al perseguimento di politiche di sostenibilità, anche quando esse non si traducono in un vantaggio economico per i soci o addirittura ne determinano una riduzione [77], posto il dato della necessità di conservazione dell’impresa nel lungo termine. Se invece si sostiene che i risultati di sostenibilità si possano raggiungere solo attraverso una rivalutazione del ruolo dei soci, troppo attratti dai rendimenti finanziari immediati [78], gli interventi del legislatore dovrebbero essere più incisivi e non di mero indirizzo. Non sembra verosimile che l’auspicata transizione dalla figura dell’investitore “ragionevole” [79] a quella dell’investitore “sensibile”, nel senso di socialmente responsabile, possa avvenire senza sistemi di enforcement. Si potrebbe inoltre auspicare una modifica dell’assetto organizzativo (e patrimoniale) delle società, tramite la previsione di rappresentanze degli stakeholders, in constante dialogo con gli organi sociali. Potrebbero riconoscersi diritti di nomina, ad esempio, ai lavoratori, o attribuire diritti di informazione o di veto sulle politiche che più incidono sugli interessi degli stakeholders. E, a tali fini, parrebbe utile che la società definisca a monte quali siano gli interessi diversi dai soci di cui tener conto nella gestione. Inoltre, bisognerebbe precisare che il riferimento alla sostenibilità di lungo termine non possa in alcun modo giustificare comportamenti immediati – quindi di breve termine – che invece siano non sostenibili o nocivi per ambiente, lavoratori, per la comunità tutta, seppur giustificati nell’ottica di massimizzazione dello shareholder value. Se l’impegno sostenibile si richiede solo nel lungo termine, possono assumersi decisioni che nel breve termine non lo siano [80]? Risulta poi necessario, come suggerito dalla maggior parte dei commenti allo studio del luglio 2020, un tentativo di riempimento del contenuto del concetto di [...]