Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
G. Giappichelli Editore

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Lo scopo della società tra short-termism e stakeholder empowerment (di Francesco Denozza, Professore emerito di diritto commerciale dell’Università degli Studi di Milano “La Statale”; Questo lavoro è destinato agli Studi in onore di Vincenzo Di Cataldo.)


Alcuni documenti dell’Unione Europea hanno recentemente ribadito la tesi che per cui i mercati finanziari sono affetti da una serie di problemi causati dalla diffusione di comportamenti volti a perseguire obiettivi di breve periodo invece che uno sviluppo sostenibile di lungo periodo.

Il lavoro identifica la causa prossima della prevalenza di orientamenti di breve periodo nella concorrenza tra gli intermediari professionali (che oggi dominano i mercati al posto degli investitori retail) e ipotizza l’esistenza di un problema di azione collettiva originato dal contrasto tra una preferenza per lo sviluppo sostenibile, che riflette l’interesse sistemico di tutti gli operatori, e la preferenza per guadagni immediati, che riflette l’interesse del singolo operatore a prevalere nella competizione con gli altri intermediari.

La soluzione che viene proposta si basa sull’idea di aumentare il potere degli altri stakeholders, dando loro la possibilità di presentare i loro interessi e le loro visioni nei consigli di amministrazione delle società, in modo da trasformare questo organo nel luogo in cui si elaborano piani strategici di lungo periodo, contenenti la migliore mediazione possibile tra i vari interessi in gioco.

Corporate purpose between short-termism and stakeholder empowerment

Some European Union documents have recently reaffirmed the thesis that financial markets face a number of problems caused by the spread of behavior aimed at pursuing short-term objectives rather than long-term sustainable development.

The paper identifies the proximate cause of the prevalence of short-termism in the competition between professional intermediaries (today dominating the markets instead of retail investors) and hypothesizes the existence of a collective action problem originating from the contrast between a preference for sustainable development, which reflects the systemic interest of all market actors, and the preference for immediate earnings, which reflects the interest of the individual actor to prevail in the competition with other intermediaries.

The proposed solution is based on the idea of empowering other stakeholders, giving them the opportunity to present their interests, and their visions, on the boards of directors of the companies, in order to transform this body into the place where long-term strategic plans (hopefully containing the best possible mediation between the various interests at stake) are drawn up.

Keywords: stakeholder – stakeholder empowerment – corporate purpose – financial intermediaries – retail

 

 

 

 

Sommario/Summary:

1. Lo scopo della società nella visione dell’Unione Europea. - 2. La nozione di short-termism e il dibattito sulle sue implicazioni. - 3. La trasformazione dei mercati finanziari. - 4. La “cultura” del breve termine. - 5. Il contesto istituzionale. - 6. Preferenze di “secondo ordine” e problemi di azione collettiva. - 7. Il coinvolgimento degli stakeholders. - NOTE


1. Lo scopo della società nella visione dell’Unione Europea.

La riflessione sullo “scopo” (un tempo avremmo detto l’interesse) che la società per azioni deve perseguire [1], ha assunto, nell’elaborazione degli organi dell’Unione Europea, una fisionomia che ruota, da una parte, intorno ad un ripensamento del rapporto tra gli investitori e i managers delle società in cui investono, e, dall’altra, intorno ad uno schema concettuale orientato a ragionare in termini di netta contrapposizione tra prospettive di lungo periodo, considerate tendenzialmente positive, e prospettive di breve periodo, considerate possibile fonte di comportamenti inopportuni [2]. In una estrema e semplificata sintesi [3], la visione che mi sembra avere sinora riscosso maggior credito presso gli organi dell’Unione può essere riassunta nei seguenti punti: 1) una delle cause principali della grande crisi finanziaria del 2007-2008, è stata l’assenza di controllo da parte dei soci sulle decisioni con cui i gestori hanno assunto rischi eccessivi; 2) il prevalere di una cultura del breve periodo (che si è concretizzata nella tendenza a sopravvalutare l’im­portanza dei guadagni immediati) ha indotto i gestori a puntare sugli elevati guadagni che solo elevati rischi possono assicurare, e ha indotto i soci a non controllare, e tanto meno contestare, le scelte eccessivamente rischiose dei gestori; 3) occorre ripristinare il ruolo delle visioni di lungo periodo e, sul piano più strettamente istituzionale, è indispensabile che i soci, oggi prevalentemente intermediari professionali, modifichino il loro ruolo aggiungendo a quello di puri percettori di dividendi, attenti solo all’ammontare degli utili immediati, anche quello di sorveglianti attenti ai rischi e a tutti i fattori che nel lungo periodo possono incidere sul successo delle imprese in cui investono i soldi di risparmiatori i cui interessi essi (in quanto intermediari) hanno il preciso dovere di curare nel migliore dei modi [4]. L’obiettivo finale è (dovrebbe essere) la realizzazione di uno sviluppo sostenibile di lungo periodo [5]. Il punto di emersione principale della complessità di questa impostazione, e delle incertezze che la circondano, è probabilmente rappresentato dalle controversie inerenti all’utilizzazione della nozione di short-termism. Con riguardo a questo tema è controverso praticamente tutto. Incerto è [...]


2. La nozione di short-termism e il dibattito sulle sue implicazioni.

Partendo dalla illustrazione più semplice e generica, potremmo descrivere lo short-termism, come l’insufficiente importanza attribuita alle esigenze che devono essere soddisfatte nel presente, per far sì che nel futuro, e quindi nel lungo periodo, possa essere realizzato uno sviluppo sostenibile. Con riferimento all’ambito specifico della società per azioni una possibile definizione lo identifica con “…the excessive focus of corporate managers, asset managers, investors, and analysts on short-term results, whether quarterly earnings or short-term portfolio returns, and a repudiation of concern for long-term value creation and the fundamental value of firms” [14]. Per illustrare il tutto con l’esempio più banale, la realizzazione di uno sviluppo sostenibile di lungo periodo richiede che vengano compiuti nel presente investimenti adeguati e, quindi, che le grandi imprese si astengano dal distribuire integralmente gli utili che conseguono, e provvedano invece a destinarne congrua parte agli investimenti, in modo da creare le basi indispensabili per avere in futuro un costante ed adeguato flusso di ulteriori utili. Se colui che deve prendere la decisione sulla ripartizione tra reinvestimento e distribuzione, ha una visione di breve periodo, preferirà rinunciare ai maggiori utili di domani e impiegare la liquidità a disposizione in distribuzioni di dividendi, o in riacquisti delle azioni, contando anche sul fatto che entrambi gli eventi possano essere in grado di esaltare, nell’immediato, i corsi borsistici della società in questione. Generalizzando, si può dire che lo short-termism in materia di corporate governance e di mercati finanziari, si manifesta nella tendenza degli amministratori a prendere posizioni che assicurano benefici immediati molto elevati, anche a costo di implicazioni che possono pregiudicare i guadagni futuri, o giungere a propiziare nel futuro addirittura perdite (con il che, in questa amplissima definizione, lo short-termism risulterebbe strettamente collegato ad uno dei fattori che secondo una diffusa opinione avrebbe concorso a determinare l’ultima grande crisi finanziaria, e cioè l’assunzione da parte degli amministratori di rischi eccessivi). Questa prospettiva, come si vede puramente, o prevalentemente, descrittiva, largamente caratterizza le elaborazioni degli organi europei, dove il riferimento allo [...]


3. La trasformazione dei mercati finanziari.

Cominciando dai mercati, cosa, negli ultimi decenni, è cambiato nella struttura dei mercati finanziari che può contribuire a spiegare la diffusione dello short-termism? La causa immediata della pressione verso il breve termine va ricercata, a mio avviso, in una trasformazione radicale che si è verificata sui mercati finanziari negli ultimi decenni, modificazione che è stata notata da tutti, ma le cui profonde implicazioni sono state ben poco esplorate [22]. Alludo ovviamente al fenomeno per cui gli investitori in larga maggioranza presenti sui mercati finanziari attuali, non sono più gli investitori c.d. retail, e cioè le c.d. famiglie e, in sostanza, i risparmiatori finali, ma sono intermediari professionali, che, operando per lo più in concorrenza tra loro, investono, per conto altrui, le risorse messe a loro diposizione dai risparmiatori finali e, in certi casi, da speculatori [23]. Questo fenomeno ha molte implicazioni, ma una merita di essere qui segnalata in particolare, tanto più in quanto si tratta di una implicazione cui non è stata dedicata l’attenzione che merita. Si tratta della trasformazione subita dal riferimento all’obiettivo massimizzazione del rendimento degli investimenti azionari. Come è ben noto, l’obiettivo della massimizzazione del valore delle azioni della società è indicato dalle teorie negli ultimi decenni dominanti a livello mondiale (le teorie che fanno appunto riferimento alla centralità del c.d. shareholder value) come la bussola che dovrebbe orientare tutti gli aspetti della gestione della società per azioni, e tutte le scelte volte a definirne i relativi assetti istituzionali. Queste teorie, a parte i loro molti altri difetti, hanno contribuito, in modo a mio avviso decisivo, ad occultare l’importanza di quanto stava avvenendo sui mercati finanziari, proprio con riferimento alla massimizzazione dello shareholder value, e alle implicazioni connesse alla scelta di esaltare tale obiettivo come il punto di riferimento dell’azione di tutti i soggetti presenti sul mercato. Il fatto è che la prospettiva di ottenere dal proprio investimento una resa complessivamente elevata (in termini di rendimenti e / o di aumento del valore del cespite) è una prospettiva sicuramente attraente per qualsiasi investitore (ovviamente anche al di fuori dell’investimento in azioni). Da [...]


4. La “cultura” del breve termine.

Le osservazioni svolte nel paragrafo precedente spiegano quale sia la causa “prossima “, e anche quali possano essere quelli che potremmo chiamare i “meccanismi di trasmissione “, dello short-termism. Non sono però ancora in grado di spiegare il fenomeno nel suo complesso. Ammesso pure che le scelte degli intermediari professionali sono condizionate dai meccanismi che abbiamo delineato e, quindi, soprattutto, dalla spinta, provocata dalla concorrenza, ad ottenere rendimenti sempre maggiori, restano ancora da spiegare le ragioni che conducono ad una possibile distorsione nella valutazione dei rendimenti stessi. Resta cioè da spiegare, ad es., come mai la rinuncia a rendimenti immediati in cambio di maggiori investimenti, non trovi adeguato riconoscimento in una proporzionata crescita di valore dei cespiti cui gli investimenti afferiscono, e come mai la competizione tra intermediari possa finire per premiare quelli che riescono a procurare (ai loro beneficiari) elevati rendimenti immediati, invece di quelli che effettuano le più oculate scelte volte alla massimizzazione dell’investimento nel lungo periodo. In sintesi, il problema, cui abbiamo già accennato, dei difetti presenti nel funzionamento del mercato, torna a presentarsi qui sostanzialmente irrisolto. Il fatto è che il mercato non corregge, o addirittura incoraggia, un orientamento complessivo verso il breve periodo, che finisce per coinvolge tutti, o la gran maggioranza dei partecipanti, e che conduce ad una inadeguata valorizzazione degli investimenti, i cui valori non si riflettono correttamente nei prezzi dei cespiti cui gli investimenti afferiscono. Con la conseguente difficoltà di stimare, e di rappresentare ai risparmiatori finali, l’ipotetico reale aumento di valore che gli investimenti hanno procurato al cespite in cui le loro risorse sono state investite. Difficoltà che ovviamente è esaltata dagli evidenti osta­coli che i risparmiatori finali incontrano nell’operare autonome stime dei valori di lungo periodo, cui ben possono aggiungersi contingenti pressioni provenienti da esigenze economiche immediate, e anche da diffusi modi di pensare, orientati a dare importanza decisiva ad elementi immediatamente misurabili, come quelli costituiti da rendimenti e aumenti di prezzo. Con ciò abbiamo operato un nuovo spostamento del problema che costringe a chiedersi quale sia la causa della [...]


5. Il contesto istituzionale.

Prima di tornare al problema da cui siamo partiti (valutazione della necessità di profonde modifiche istituzionali del rapporto tra shareholders e altri stakeholders), il quadro delineato nei paragrafi precedenti deve essere completato con l’esame della posizione degli altri protagonisti di questa vicenda, i managers delle società operative, Partendo dal quadro istituzionale in cui operano, un primo punto che deve essere ribadito riguarda il formale [32] potere discrezionale che i managers esercitano, potere la cui ampiezza difficilmente può essere ridotta per via regolamentare. A questo riguardo è opportuno qui ricordare, e ribadire l’importanza del fenomeno che va sotto il nome c.d. di incompletezza dei contratti (e delle leggi) [33]. Se si potesse immaginare la possibilità di confezionare regole (contrattuali e/o legislative) assolutamente complete, nel senso di regole in grado di dare precise indicazioni sul modo in cui i destinatari delle stesse devono comportarsi in ogni possibile circostanza futura, ben si potrebbe immaginare un mondo in cui ciascun interessato, prima di assumere qualsiasi impegno, contratta, e definisce esattamente, con tutti gli altri interessati, sia la prestazione che dovrà effettuare, sia le controprestazioni che dovrà ricevere in cambio. La legge potrebbe completare il quadro, provvedendo a dettare le regole relative ai rapporti che non possono essere oggetto di contrattazione tra le parti (come la protezione dell’ambiente, ad es.). L’ineliminabile incompletezza delle norme (siano esse legislative o convenzionali) che si manifesta in forme particolarmente acute quando, come nel presente caso, si tratta di regolare realtà particolarmente dinamiche, fa però sì che nonostante la presenza, evocata dall’impostazione dominante, di una rete di contratti che, insieme alle norme di legge, disciplinano i rapporti tra tutti i fornitori di risorse all’impresa, resta comunque un margine potenzialmente molto ampio di eventi futuri non previsti, non prevedibili e non regolati, che possono essere legittimamente affrontati con strategie anche molto diverse tra loro, e con effetti molto diversificati sulla soddisfazione dei vari interessi in gioco. È in questo contesto che va inquadrato il tema dei rapporti tra i vari interessati, ed è in questa prospettiva che va valutata l’importanza del tema dello scopo [...]


6. Preferenze di “secondo ordine” e problemi di azione collettiva.

Possiamo ora finalmente affrontare il problema che ci siamo posti all’inizio e chiederci se sia convincente la prospettiva che sembra avere sinora prevalso nell’impostazione dell’Unione Europea, e che ruota, da una parte, intorno all’obiettivo di convincere gli operatori ad adottare visioni di più lungo periodo e, dall’altra, a quello di modificare alcuni meccanismi istituzionali relativi ai doveri dei managers e ai loro rapporti con i soci. Il giudizio sulla prospettiva europea dipende a mio avviso soprattutto da una valutazione della possibilità che si riesca ad innescare un cambiamento negli orientamenti dei principali operatori di mercato. Una simile valutazione presupporrebbe una piena comprensione degli attuali rapporti tra investitori professionali e managers delle società in cui investono, comprensione difficile da acquisire, considerato anche che gli investitori professionali sono molto diversi tra di loro, il che rende ancora più difficile la ricostruzione dei meccanismi che governano le loro scelte e gli effetti che le stesse possono produrre [39] Occorrerebbe in realtà una analisi dell’attuale funzionamento dei mercati molto più approfondita e articolata di quella possibile in questa sede [40]. Restando al livello più superficiale, qualche prima riflessione può essere tuttavia suggerita da un esame di dati aneddotico, dal quale sembra risultare l’esistenza in capo agli operatori (i managers delle società e i gestori dei principali investitori istituzionali) di una tendenziale consapevolezza soggettiva dei problemi connessi allo short-termism. Tale consapevolezza chiaramente trapela dalle dichiarazioni programmatiche provenienti da alcuni di tali soggetti. Significative indicazioni a questo riguardo possono essere fornite dal recente dibattito originato dalla presa di posizione di numerosi amministratori di importanti società statunitensi, in favore di un impegno, cui tutti si sentirebbero vincolati, alla considerazione degli interessi non solo dei soci, ma di tutti gli stakeholders. Oltre alla rottura che questa dichiarazione di principio segna rispetto alla filosofia dello shareholder value negli ultimi anni dominante, è interessante rilevare la relativa coincidenza che sui punti principali esiste tra questa dichiarazione dei managers delle imprese operative, quelle provenienti dai managers degli investitori [...]


7. Il coinvolgimento degli stakeholders.

Accantonando la prima alternativa, che richiederebbe interventi legislativi particolarmente incisivi e che richiederebbe uno studio a parte, la seconda alternativa suggerisce di valutare un obiettivo che finora non è stato al centro dei programmi di intervento istituzionale dell’Unione Europea, e che invece potrebbe rappresentare a mio avviso una effettiva ed importante svolta. Potremmo definire questo obiettivo come la creazione di spazi istituzionali in cui possa essere sviluppata una riflessione che tenga conto delle prospettive generali e sistemiche, una riflessione, quindi, particolarmente predisposta a dare adeguato peso a preferenze di secondo ordine ed a visioni di lungo periodo, e che sia in grado di fissare punti fermi non suscettibili di essere messi in discussione dall’opportunismo che può manifestarsi al momento di compiere scelte specifiche. Dico subito che secondo me questa funzione di produttore di decisioni e di punti di riferimento generali potrebbe essere svolta dai consigli di amministrazione delle grandi imprese. Aggiungo, anche, che il coinvolgimento nei relativi processi decisionali di tutti gli stakeholders interessati dovrebbe essere considerato come un fattore decisivo nel determinare il successo nello svolgimento di questa funzione. L’adozione di questa prospettiva dovrebbe comportare una ulteriore evoluzione del ruolo dei consigli di amministrazione delle grandi imprese, già passati dall’essere organi di tipo esecutivo, ad organi di controllo, e che, adesso, nella prospettiva che qui si sta delineando, dovrebbero diventare organi in cui vengono mediate le diverse visioni e i diversi interessi di tutti i soggetti in qualche modo interessati alle sorti dell’impresa. Una mediazione, quindi, anche con gli interessi degli stakeholders altri rispetto ai soci, cui dovrebbe essere riconosciuto il diritto di partecipare in qualche modo al processo di valutazione dei vari interessi in gioco [49]. Ovviamente, come si è già notato, non tutti gli stakeholders possono essere accreditati come portatori di interessi e di visioni spontaneamente orientate al lungo periodo. Questa non è però una controindicazione decisiva, soprattutto dopo che si sia riconosciuto (v. sopra par. 2) che l’obiettivo non è quello di far prevalere, in ogni modo e a tutti i costi, le visioni di lungo periodo, ma è quello di raggiungere un ragionevole equilibrio [...]


NOTE