Rivista Orizzonti del Diritto CommercialeISSN 2282-667X
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Codice della crisi e codice civile (di Carlo Ibba, Professore ordinario di diritto commerciale, Università degli Studi di Sassari)


Il lavoro analizza le principali modifiche apportate dal codice della crisi d’impresa, recentemente approvato, a disposizioni del codice civile.

This article aims at analyzing the changes recently made by the Bankruptcy Code (legislative decree n° 14/2019) in some provisions of the Civil Code.

Keywords: bankruptcy Code – changes in the Civil Code

Sommario/Summary:

1. Premessa. - 2. L'abrogazione dell'art. 2221 c.c. - 3. Le prescrizioni sugli assetti organizzativi. - 4. Mutamenti di disciplina concernenti la s.r.l.: a) la competenza esclusiva degli amministratori in materia di gestione. - 4.1. Segue: b) l'applicabilità dell'art. 2381. - 4.2. Segue: c) la previsione dell'azione di responsabilità dei creditori sociali. - 4.3. Segue: d) la previsione del controllo giudiziario. - 4.4. Segue: la disciplina dell'obbligatorietà dell'organo di controllo. - 5. I criteri di quantificazione del danno risarcibile in caso di violazione del dovere di gestione conservativa in presenza di una causa di scioglimento. - NOTE


1. Premessa.

Il titolo promette sicuramente troppo. Non intendo infatti riflettere in termini generali sul rapporto tra le due fonti normative in esso richiamate, né cimentarmi in un’analisi dei riflessi sistematici che l’approvazione del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza avrà o potrà avere sulla materia regolata nel codice civile. Vorrei invece occuparmi solamente di alcune delle modifiche apportate dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 a disposizioni del codice civile; più precisamente, di quelle fra esse che sono contenute negli artt. 375 ss. – ossia nella parte seconda del codice della crisi, intitolata appunto “Modifiche al codice civile” – e che sono entrate in vigore, salvo una di cui dirò subito, il 16 marzo 2019 [1]. In questa prospettiva il riferimento del titolo al codice civile, invece che più restrittivamente al diritto societario, consente di includere nel discorso anche una modifica che esula dal diritto delle società, collocandosi più propriamente nel diritto dell’impresa; con l’ultima avvertenza che in ogni caso si tratterà – su questo punto come su quelli che toccherò nelle pagine che seguiranno – di una serie di impressioni a prima lettura o poco più.


2. L'abrogazione dell'art. 2221 c.c.

Per comprendere il senso di questa – come vedremo, in verità modesta – innovazione, non è necessario ripercorrere per intero l’interminabile querelle sul rapporto fra la nozione di piccolo imprenditore contenuta nell’art. 2083 c.c., rimasta immutata dal 1942, e quella contenuta nell’art. 1 legge fall., che è stata invece modificata a più riprese [2]. È sufficiente muovere dalla riforma della legge fallimentare del 2006-2007 (articolata nel d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; e nel d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), nell’ambito della quale il decreto correttivo, volendo troncare i persistenti contrasti interpretativi sul rapporto fra art. 1 legge fall. e art. 2083 c.c., aveva sganciato l’esonero dal fallimento dalla nozione di piccolo imprenditore, ricollegandolo unicamente al rispetto dei parametri quantitativi che conosciamo, che sono quelli tuttora vigenti. A partire (almeno) da quel momento – questo era il senso della modifica allora introdotta [3] – l’esenzione dal fallimento prevista dall’art. 1 non riguardava più i (soggetti definiti come) piccoli imprenditori ma qualunque soggetto che rispettasse quei parametri; e la nozione di piccolo imprenditore contenuta nell’art. 2083 non operava più ai fini delle procedure concorsuali (anche perché lo scopo della modifica risiedeva proprio nell’evitare le incertezze giurisprudenziali connesse all’applicazione di un criterio identificativo così aleatorio e opinabile quale quello della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari rispetto agli altri fattori produttivi impiegati, consacrato nell’art. 2083). La seconda conclusione era però ostacolata dall’art. 2221 c.c., il cui enunciato continuava a escludere dal fallimento i piccoli imprenditori; e su di esso facevano leva alcuni autori per sostenere che chi poteva dirsi piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 era in quanto tale esonerato dal fallimento, a prescindere dal rispetto dei parametri dell’art. 1 l. fall. Si trattava di argomentazioni a mio avviso non convincenti, perché fra le due norme – art. 2221 c.c. e art. 1 l. fall. – vi era un’evidente antinomia, in quanto esse regolavano la stessa materia in due modi fra loro non compatibili (per la prima il piccolo imprenditore era esonerato dal fallimento, per la [...]


3. Le prescrizioni sugli assetti organizzativi.

Al diritto dell’impresa attiene altresì, per la sua trasversalità, la materia degli assetti organizzativi, pur declinandosi essa anche in alcune prescrizioni – peraltro, come vedremo, non tutte particolarmente felici – di diritto societario. Ad essa è dedicato l’art. 14 della legge-delega (l. 19 ottobre 2017, n. 155) là dove, nella lett. b, impone di prevedere “il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. A questa previsione – che si rivolge per un verso all’imprenditore tout court, per un altro agli organi sociali – fa riscontro, nella legge delegata, una vera e propria escalation di prescrizioni che ruotano intorno al medesimo concetto. Mi riferisco innanzi tutto all’art. 3 [6], rubricato “doveri del debitore”, che distingue fra imprenditore individuale e collettivo, imponendo al primo di “adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte” e al secondo di “adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative”. Non è chiarissimo in che cosa il contenuto precettivo delle due prescrizioni si diversifichi (salvo ipotizzare che gli assetti organizzativi adeguati richiesti dalla seconda implichino una complessità maggiore delle misure idonee previste dalla prima [7]). È chiaro invece che entrambe sono strumentali rispetto alla tempestività della rilevazione della crisi e dell’adozione delle opportune iniziative. La prospettiva pare invece allargarsi nell’art. 375, che, intervenendo sul richiamato art. 2086 c.c., ne modifica la rubrica (da “Direzione e gerarchia nella impresa” a “Assetti organizzativi dell’impresa”) e inserisce un secondo comma che ribadisce per “l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva” [8] “il dovere di [...]


4. Mutamenti di disciplina concernenti la s.r.l.: a) la competenza esclusiva degli amministratori in materia di gestione.

Alla luce di quanto precede, la novità di maggior impatto introdotta dal­l’art. 377 non risiede, a mio avviso, nelle prescrizioni sugli assetti organizzativi societari di cui si è detto bensì nel precetto che immediatamente le segue, secondo cui “la gestione dell’impresa” – che deve svolgersi nel rispetto del­l’art. 2086 c.c. – “spetta esclusivamente agli amministratori [19], i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”; precetto che, com’è noto, la riforma societaria ha dettato per le sole società per azioni e che ora viene testualmente riprodotto per tutti i tipi societari [20], con esiti a prima lettura dirompenti nell’ambito delle s.r.l. – sulle quali concentrerò la mia attenzione – e delle società di persone. Al riguardo, certamente “non può essere ignorata la […] totale coincidenza (anche lessicale) con il principio dettato per le s.p.a.” [21]. Non direi però che ciò legittimi la conclusione secondo cui “la norma […] non può che avere nella s.r.l. il significato che ad essa è attribuito nelle s.p.a.” [22], dovendo la sua interpretazione tener conto del contesto normativo in cui essa è inserita [23]. Direi anzi – anticipando i risultati cui mi sembrerà corretto pervenire – che l’esame del problema conferma che il medesimo enunciato, in ambienti normativi diversi, assume o può assumere significati diversi [24]. Entrando nel dettaglio, riguardo alle società di persone la nuova regola parrebbe difficilmente conciliabile con quella secondo cui, in regime di amministrazione disgiuntiva, qualora un amministratore si opponga al compimento di un atto gestorio, sull’opposizione decidono i soci (art. 2257, ult. co.) [25]. Quanto alle società a responsabilità limitata, dalla riforma societaria in poi in tutte le università italiane si è sempre insegnato che in questo tipo societario, diversamente che nella s.p.a., sono consentiti interventi dei soci in materia di gestione, sia individualmente sia collettivamente. Soluzione, questa, del tutto coerente con il principio della centralità del socio enunciato nella legge-delega [26]; fondata positivamente, in termini generali, sulla norma [...]


4.1. Segue: b) l'applicabilità dell'art. 2381.

Ulteriore modifica apportata dall’art. 377 d.lgs. 14/2019 all’art. 2475 è costituita dall’inserimento di un ultimo comma secondo cui “si applica, in quanto compatibile, l’articolo 2381”, le cui disposizioni regolano, nelle società per azioni, i poteri del Presidente del consiglio di amministrazione, l’istituto della delega e i rapporti fra delegante e delegato. A dire il vero anche questa modifica appare sostanzialmente al di fuori della delega conferita dalla l. 155/2017: per sostenere il contrario occorrerebbe dimostrare che le disposizioni contenute nell’art. 2381 c.c. siano essenziali ai fini dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo (una sorta di presunzione assoluta peraltro di assai dubbio fondamento). In ogni caso, l’ammissibilità dell’istituto della delega di poteri nella s.r.l. era già data per certa pur nel silenzio della legge, sicché il richiamo dell’art. 2381 ha il senso di precisare quali siano – anche nella s.r.l. – i rapporti fra delegante e delegato e quali i poteri del Presidente. Potrebbe comunque essere opportuno, ove si voglia rimuovere ogni possibile dubbio futuro in proposito, recepire le disposizioni in questione nello statuto [42]. Verosimilmente non applicabile per incompatibilità è la previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 2381, relativo all’obbligo di agire informati, nella parte in cui sembra individuare nelle sole riunioni consiliari la sede d’informazione degli amministratori privi di delega; regola, questa, che parrebbe “fuori sistema” nell’ambito della s.r.l., ove anche il singolo socio non amministratore ha – ai sensi dell’art. 2476, 2° co. – diritti d’informazione e di controllo ben maggiori [43].


4.2. Segue: c) la previsione dell'azione di responsabilità dei creditori sociali.

Com’è noto, dopo la riforma societaria del 2003 nella disciplina della s.r.l. non era più regolata, né con norma autonoma né mediante rinvio alla disciplina della s.p.a. e in particolare all’art. 2394 c.c., l’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori; e il silenzio normativo aveva generato dei dubbi sull’ammissibilità di tale azione, pur generalmente risolti in senso affermativo [44]. Il codice della crisi elimina ogni residua incertezza sul punto inserendo nell’art. 2476 c.c. – per effetto dell’art. 378, 1° co. – un nuovo sesto comma, che riproduce integralmente gli enunciati dell’art. 2394 c.c. [45].


4.3. Segue: d) la previsione del controllo giudiziario.

Il riavvicinamento alla disciplina della s.p.a., e la propensione ad un maggior rigore nella disciplina dei controlli, si manifestano anche nella previsione che reintroduce a pieno titolo nella disciplina della s.r.l. il controllo giudiziario [46]. Anche in questo caso si tratta di un ritorno alla situazione anteriore alla riforma societaria, che pone fine a un ricchissimo dibattito dottrinale e giurisprudenziale nel quale era andata sempre più affermandosi la tesi – argomentata dal combinato disposto degli artt. 2477, 4° co., e 2409, ult. co., c.c. – del­l’ammissibilità del controllo giudiziario nelle sole s.r.l. [47] provviste dell’or­gano di controllo. Ciò spiega il tenore testuale della disposizione inserita [48] quale ultimo com­ma dell’art. 2477, nella parte in cui dispone l’applicazione dell’art. 2409 “anche se la società è priva di organo di controllo”. Rispetto alla situazione successiva alla riforma societaria, dunque, l’opera­tività del controllo giudiziario si riespande pienamente, riguardando ora tutte le s.r.l. e venendo ripristinata la legittimazione dei soci che rappresentino almeno un decimo del capitale (ex art. 2409, 1° co.). La soluzione può del resto considerarsi espressione di un principio ormai sempre più generale, se si considera la recente estensione del controllo giudiziario [49] alle associazioni e fondazioni del terzo settore (cfr. l’art. 29 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, con la previsione della legittimazione alla presentazione della denunzia di gravi irregolarità anche del pubblico ministero); e trova un antecedente per le s.r.l. a controllo pubblico nell’art. 13 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, ove però la legittimazione attiva è riconosciuta, almeno esplicitamente, solo ai soci pubblici ed a prescindere dall’aliquota di capitale posseduta.


4.4. Segue: la disciplina dell'obbligatorietà dell'organo di controllo.

Fra i principi e criteri direttivi la legge-delega enunciava quello volto ad estendere i casi in cui le s.r.l. sono obbligate alla nomina dell’organo di controllo o del revisore, indicando altresì nel dettaglio i nuovi limiti, i criteri del loro operare e i rimedi in caso di mancata nomina (art. 14, lett g, h, i, l. 155/2017). Conformandosi integralmente a queste disposizioni, con l’art. 379 cod. crisi il legislatore delegato ha perciò modificato i commi 2, 3 e 5 dell’art. 2477 c.c.: a) abbassando drasticamente i limiti in precedenza stabiliti dall’art. 2477, 2° co., lett.c,fissandoli in 2 milioni di euro (invece di 4.400.000) per il totale dell’attivo dello stato patrimoniale; 2 milioni di euro (invece di 8.800.000) per i ricavi delle vendite e delle prestazioni; 10 unità (invece di 50) per il numero di dipendenti mediamente occupati nell’esercizio (2° co.); b) rendendo sufficiente il superamento per due esercizi consecutivi anche di uno solo (anziché di due, com’era in precedenza) dei predetti limiti (2° co.); c) stabilendo che l’obbligo cessa quando per tre esercizi consecutivi (in precedenza: due) non è superato alcuno dei limiti (3° co.); d) stabilendo altresì che in caso di inerzia dell’assemblea alla nomina provveda il tribunale, oltre che su richiesta di qualunque interessato, anche “su segnalazione del conservatore del registro delle imprese”; segnalazione che parrebbe assumere i connotati della doverosità, là dove dai bilanci depositati risulti il superamento dei limiti e non sia stata chiesta nei termini la nomina. Una norma di diritto transitorio, contenuta nell’art. 379, 3° co., e applicabile alle s.r.l. già esistenti alla data di entrata in vigore dell’entrata in vigore delle modifiche, consente di procedere alla nomina e agli eventuali adeguamenti statutari entro nove mesi da tale data [50] (e ciò, alla luce della formulazione della norma, dovrebbe valere non solo per le s.r.l. il cui statuto riproduca i vecchi limiti ma anche per quelle il cui statuto rinvii alla disciplina legale) [51], dovendosi effettuare la verifica dei presupposti sulla base dei bilanci degli ultimi due esercizi anteriori alla scadenza indicata, oltre la quale le clausole statutarie non conformi alla legge diventeranno inefficaci (verificandosi una loro sostituzione [...]


5. I criteri di quantificazione del danno risarcibile in caso di violazione del dovere di gestione conservativa in presenza di una causa di scioglimento.

Allargando infine lo sguardo a una modifica incidente sulla disciplina di tutte le società di capitali, la legge-delega, all’art. 14, lett. e, prescriveva di definire “i criteri di quantificazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità promossa contro l’organo di amministrazione della società fondata sulla violazione di quanto previsto dall’articolo 2486”; ossia del danno che consiste nell’aggravamento del passivo conseguente alla prosecuzione dell’at­tività nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento. Com’è noto, il punto aveva dato luogo a un nutrito dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nel quale un punto di riferimento importante è rappresentato dall’intervento delle Sezioni Unite, la cui decisione [52] è riassumibile in due massime. Secondo la prima, “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile deve essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento”. Si sancisce, dunque, in sostanza, il rigetto del così detto criterio differenziale, consistente nell’individuare il danno nella differenza fra attivo e passivo della procedura fallimentare; criterio semplicistico, oltre che semplificatorio, seguito da svariati Tribunali ma oggettivamente privo di qualunque giustificazione razionale. In base alla seconda, “nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pure se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente [...]


NOTE